“Poor Things” – “Povere Creature!”

Il titolo originale di questo film non fornisce suggerimenti. Poi lo guardi e scopri che è un milione di cose insieme – divergenti, autonome, straniere l’una all’altra – il cui andamento è però in una direzione coerente, mirato ad un punto: mostrarci la meraviglia del libero arbitrio, l’effetto del non condizionamento di un’educazione che ci inquadra, ci condiziona, inevitabilmente.

Sebbene il riferimento più lampante sia Frankenstein, spariglio le carte dichiarando che trovo ancora più calzante quello ad Adamo ed Eva e all’albero della conoscenza, rispetto al quale Eva infranse l’obbligo di non nutrirsene.

Bella Baxter (interpretata divinamente da Emma Stone) “ri-nasce”, da una donna ormai in fin di vita, per opera del dottor Godwin Baxter, che le impianta il cervello del bimbo che lei portava in grembo.

Il prefisso del nome del suo eccentrico salvatore, “God-“, già ci rimanda alle alte sfere che hanno dato origine al creato, rafforzandomi egocentricamente nell’idea che anche la Genesi c’azzecchi. Qui però non è da una costola altrui che prende vita la donna, ma da una parte di un essere umano che lei stessa stava per generare, in una dinamica circolare che già ci suggerisce che ognuno basta a se stesso e che addirittura da se stesso può rigenerarsi. È proprio a questa meraviglia che ci sarà dato di assistere.

Vediamo Bella attraversare, a massima velocità, come in time lapse, tutte le fasi della crescita. Innanzitutto quella dell’infanzia, nella quale – bambina nel corpo di un adulto – fa i capricci, buttando i piatti per terra per sfidare l’adulto-adulto, cammina in modo incerto, se la fa addosso, parla in modo poco comprensibile. Tutto questo circondata da uomini di scienza, Godwin e il suo assistente, che ne osservano in modo asettico l’evoluzione, annotandone le caratteristiche e senza indirizzare Bella con i “questo non si dice, questo non si fa, dì grazie al signore, saluta”. Bella-Eva non distingue il bene dal male, non ha mangiato la mela dell’albero della conoscenza, nessuno le indica paletti o forme da osservare. Bella è puro istinto.

Nell’adolescenza il puro istinto prende la forma della deliziata e sfrenata scoperta dell’eros e della sua pratica, intanto da sola, e poi con chi, più avanti, le regalerà “furiosi sobbalzi”. La sua totale sospensione di giudizio, o meglio assenza di giudizio, ci fa osservare il miracolo di cosa si può essere, fare, diventare, senza condizionamenti: i furiosi sobbalzi non hanno nulla di scandaloso, il piacere che danno ha lo stesso candore del pain au chocolat, che pure più avanti Bella adorerà… solo che è mooooolto più forte!

In realtà un condizionamento, uno solo ma enorme, c’è: Godwin non vuole che Bella vada oltre le pareti della grande casa in cui vivono; il motivo, nascosto, è che qualcuno potrebbe riconoscere la donna che lei era nella sua vita precedente. Quando però ottiene quel che vuole e vede (sia pure con le dovute precauzioni adottate da Godwin) gli alberi, i prati, le strade con donne e uomini di cui nemmeno ipotizzava l’esistenza, Bella viene travolta dalla fame di conoscenza e decide di partire per scoprire il mondo. Mica scappa: lei non deve chiedere il permesso, semplicemente comunica che partirà. Non c’è da preoccuparsi, no, tornerà. Ma ora ha questa urgenza.

Ed è qui che si passa dal bianco e nero (con scene in fisheye che producono un effetto tra il voyeuristico e il claustrofobico) ai colori accesi, saturi, di vita che esplode. Qui e per tutta la durata del film, regia, sceneggiatura, scenografie e fotografia si fondono creando un contesto visionario e un ritmo travolgente.

Ormai Bella è adulta e d’improvviso ci rendiamo conto che non ci siamo accorti di come, di quando abbia migliorato tanto la camminata, la postura, il modo di parlare, che è sempre “bizzarro” ma quasi forbito. Emma Stone è brava in modo impressionante nel non farci avvertire soluzioni di continuità, così come è brava (pare una contraddizione) a cambiare tantissimo. La scena del ballo è impagabile, magistrale.

È vero, è un’adulta, ma un’adulta giovane che ha ancora tanto da imparare: un’esperienza dopo l’altra (come la conoscenza del dolore o l’esperimento di vivere senza agi, così come tanta lettura), Bella forma il suo sistema di valori, profondamente razionale, ed è sulla base di quello che valuta cosa è bene e cosa è male; sperimenta, sperimenta, sperimenta, seguendo le orme del “padre” Godwin, affinando l’ingegno e la sensibilità e trovando sempre la soluzione.

E alla fine la soluzione è proprio lei, Bella, determinata e autodeterminata.

“Ariaferma”, e dell’incurabile (mia) tendenza all’enciclopedismo

Avevo impostato questo “articolo” in modo un po’ troppo da critico cinematografico. Il film in questione contiene talmente tanto che raccontare ogni aspetto, ogni sfumatura (quelli che ho colto, naturalmente), rischia di fare un po’ troppo “Morandini”, tra l’altro senza che io ne abbia alcun titolo.

È anche vero che ci terrei ad appuntare tutto quello che ho in testa, fosse anche solo per me, ma stanotte mi sono svegliata col terrore che sarebbe risultato pesante, e anche che non è bello svelare tutto, né che chi mi legge sia condizionato nella visione del film da quello che io ci ho trovato.

E insomma, eccomi a cercare di “tratteggiare”, più che di raccontare; metterò da parte anche le questioni relative alla fotografia, di cui sono poco esperta ma che persino io mi accorgo dare un mirabile contributo di contenuto, oltre che estetico. Risolvo in poche parole anche la parte recitativa: Toni Servillo e Silvio Orlando eccezionali, senza i quali probabilmente il film non sarebbe la perla meravigliosa che è.

Ah già, vorrete almeno sapere di cosa stiamo parlando: “Ariaferma”, film del 2021 di Leonardo Di Costanzo, che narra di una specifica realtà, quella carceraria, ma che insieme vuole e sa essere universale.

Parla di tutte le nostre vite: di come le viviamo pietrificati nei ruoli che le convenzioni sociali ci assegnano e di quanto sia impossibile alla grandissima parte di noi vedere un’altra possibilità. Ci identifichiamo ognuno nel proprio personaggio, seguendo il solco di chi quel ruolo lo ha ricoperto prima di noi e quasi recitando una parte obbligata, di modo che la vita si trasforma in un gioco che – se siamo sfortunati – ci ha assegnato di essere malati o soggiogati o violenti e abbiamo davanti a noi – o meglio, contro – i curatori o gli aguzzini o le guardie, che ben esercitano la loro azione prevaricatrice. Due squadre l’una contro l’altra, i cui membri sanno essere solidali nella contrapposizione alla squadra avversaria, mentre singolarmente presi sono ugualmente irrisolti o ugualmente soli: tornando alla realtà carceraria del film, neanche l’ora d’aria è un momento di scambio e socializzazione, poiché non è che una “formalità”, una regola prevista dal gioco di cui si è pedine eterodirette. Quel cortile è un’estensione della cella, altrettanto soffocante.

Il ruolo della guardia non è meno irreggimentato: prevede di essere torvi, violenti, schiacciati dalla disciplina che si ha il dovere di far rispettare.

La felicità non esiste, in questo meccanismo che si nutre di sé; oppure esiste, ma la si può raggiungere solo se si ha la consapevolezza per interromperlo, quel meccanismo, mettendo un bastone nei suoi terribili ingranaggi.

Ed ecco che ad un certo punto in Ariaferma il personaggio chiave del film, l’agente Gargiulo, chiamato a gestire una situazione particolarmente critica, vede il bivio invisibile agli altri, la strada alternativa, quella mai battuta, tangente al circolo vizioso e che poi continua dritto, in una direzione su cui lui scommette alla cieca, assumendosene ogni responsabilità.

L’inatteso porta con sé stupore, paura, dissenso da parte degli altri. Dare fiducia ai detenuti, a partire dal più pericoloso tra loro? Una follia, una mossa non prevista da questi scacchi dalle pedine umane.

Ogni passo porta con sé un rischio enorme, ma la nostra “scheggia impazzita” prosegue in quella direzione; vale la pena rischiare, o comunque la soluzione può essere solo lì, nulla glielo toglie dalla testa, sebbene sia lui il primo a non conoscere le tappe e il punto di arrivo di quel percorso.

Di Costanzo ha l’immensa bravura di farci vivere questa esperienza con la lenta gradualità con cui realmente si svolge, senza strappi temporali o emotivi. Ognuno di quei passi porta con sé un impercettibile cambiamento – di sensibilità, di contesto, di consapevolezza, di relazioni – con la stessa efficace e paziente calma con cui, goccia dopo goccia, si formano le stalattiti.

Tanta gradualità rende il film tutt’altro che lento, come invece si potrebbe immaginare, poiché è accompagnata da un costante aumento della tensione: gli equilibri sono continuamente instabili e superati dal procedere degli eventi.

Il momento culminante della rivoluzione condotta da Gargiulo si compie in una cena, una commovente Ultima Cena profana – ma insieme sacra per il valore che con la sua rappresentazione dà a ogni uomo – che brilla di leggerezza, gioia, fratellanza, condivisione, dignità. Di azzardo, anche, perché in questo “fuori onda” ogni perimetro è cancellato, finalmente anche la gabbia mentale si è aperta.

È con questa scena, in cui tutti sono indistinguibilmente degni, che prende realmente senso quella che apre il film e in cui un gruppo di amici non è altro che questo – uomini senza etichetta, che ridono si divertono condividono – prima di entrare nel carcere e indossare le divise da guardia, che ingabbiano come quelle da carcerato.

La cena si svolge nel momento di massimo isolamento del carcere dalla realtà: appena i collegamenti con l’esterno si riattivano, tutto torna alla cruda normalità, quella dei criceti nella ruota e degli scacchi con pedine a forma di homo sapiens.

Sicché, è vero, la rivoluzione è stata temporanea, ma non è avvenuta invano; la lezione che dà resta indelebile: l’umanità genera umanità, svestirsi dei panni del proprio personaggio fa sì che gli altri facciano altrettanto e ci sentano vicini a loro, aldilà del ruolo che ognuno riveste. Da questo miracoloso contagio (in una delle ultime scene anche la più severa delle guardie sembra arrendersi all’evidenza che c’è un modo umano di fare le cose) nascono solidarietà, vicinanza, empatia e si evidenziano le differenze, le sfumature, le sfaccettature. Anche i dolori, sì, perché abbassare la corazza scopre, ma condividendoli si è meno soli.

Ecco perché, dicevo, questo film è universale: ognuno di noi ha la sua gabbia; la felicità è da qualche parte, fuori dalla nostra cella. Per dirla con Dalla, Maria vive nella casa in riva al mare, a portata dei nostri occhi ma oltre le nostre sbarre.

Diamo retta a Di Lorenzo e buttiamole giù, ora, tutti.

“The Beatles: Get Back”: la grande bellezza

I trailer, si sa, esagerano. Quello di The Beatles: Get Back no.

Anzi, guardatelo a visione del film avvenuta e vi metterà un’adrenalina pazzesca, perché solo voi che l’avrete già visto saprete che è proprio così: pazzesco come lo dipingono in quei 4 minuti.

Le 8 ore del film-documentario sono entrate nella mia vita a gamba tesa, lasciandomi dentro delle onde in movimento continuo, a risuonare con i miei pensieri; non sono una musicista e neppure una fan accanitissima dei quattro (oddio, ora un po’ sì!), eppure Get Back ti scuote, chiunque tu sia.

Gli elementi senza i quali l’eccezionalità del contenuto non sarebbe bastato a dare tanta emozione sono la nitidezza delle immagini e la loro “fulgida rotondità” (non saprei come dire altrimenti). I volti, gli sguardi, le pieghe, i colori, i riflessi, sono così ben definiti che in un attimo mi sono ritrovata tra i Beatles, incredula di averli intorno a me e chiedendomi come possa il mondo essere convinto che due di loro siano morti e gli altri due molto invecchiati, se la verità vera che tanto realismo dimostra è che hanno tutti sui 27 anni e godono di ottima salute, nonostante i triliardi di sigarette che fumano tutto il tempo.

La storia scorre e ogni attimo sai che stai per scoprire qualcosa che non conosci. No, non lo conosci, perché ogni scena è inedita e vera e tu hai vinto l’incommensurabile lotteria di potervi assistere in diretta, in presenza, lì, mentre si svolge e il resto del mondo ne è all’oscuro.

Questo senso di ubriacatura ti accompagna tutto il tempo, mentre scopri che un concerto pazzesco tenuto senza autorizzazioni su un tetto londinese non è il momento finale di un progetto architettato nei minimi dettagli dai musicisti e da chi li segue e produce, bensì il risultato di tre settimane caotiche e disordinate… talmente tanto che, sebbene il finale storico mi fosse noto, ho avuto per tutto il tempo la preoccupazione che non ce l’avrebbero mai potuta fare, andando avanti di quel passo.

I quattro hanno pochi giorni a disposizione per tirare fuori una dozzina di canzoni nuove. Una full immersion durante la quale sono prima chiusi in uno spazio ampio e quasi asettico, arredato da poche sedie e dai loro strumenti, in cui non possono fare altro che essere sé (“Abbiamo solo noi stessi”, dicono ad un certo punto), per poi passare nello studio di registrazione.

Il calendario scorre veloce ma loro procedono lentamente, senza patemi e – stupore – senza metodo. Dall’alto del mio scranno vorrei mettere loro fretta, ma devo limitarmi ad assistere e a fare un po’ alla volta la loro conoscenza.

Paul è carismatico, fascinoso, risoluto, ambizioso. Se lo avessi conosciuto, a quell’età, me ne sarei follemente innamorata, non ricambiata. È anche il più preciso, il più strutturato, il più “progettuale”.

È ingannando la noia, in attesa dell’arrivo degli altri, che una mattina accenna scomposto quella che diventerà Get Back, mentre tu vivi commosso la bellezza del momento creativo e la sua incredibile casualità ed estemporaneità. Dopo poco arriva George, che si mette accanto a lui, incuriosito, dando qualche ulteriore spunto, con la stessa leggerezza di chi ti dà una mano a finire il cruciverba.

E poi Paul è il genio. Scoprire come nasce il BLANG! BLANG! di “Maxwell’s Silver Hammer” è qualcosa di impagabile.

John invece è distratto, svogliato, ritardatario. Un incrocio tra il troll e l’intelligente che non si applica. A volte quasi mi innervosisce; gli altri sgobbano e lui… bah.

Ringo è l’imperscrutabile Buddha, l’uomo che – pur parlando poco o niente – tutto osserva e tutto sa; dalla sua postazione sembra fare da collante e tenere la pace nel gruppo. Siamo diventati amici, io e Ringo.

George è quello che capisco meno; è di tutti forse il più problematico, il più irrisolto, o semplicemente il più complesso.

Li osservo mentre fumano, ridono, mangiano, fumano, cantano, fumano, sbadigliano, bevono, si divertono, si sfaldano e si riuniscono ed è vita vera, bella, mentre i giornali scrivono cose senza senso su di loro, che ci scherzano su, nei pochi momenti di pausa in cui non si rilassano suonando brani di ogni tipo.

Sul timore che il tetto del palazzo – il famoso rooftop – possa non reggere il peso loro e degli strumenti invece non scherzano; e anche stupirsi di questo momento così pratico, da organizzazione della sagra di paese, è stato emozionante. Così come partecipare al coinvolgimento, ad un certo punto, di Billy Preston: gioioso, musicale, sorridente (e ovviamente bravissimo!).

Poi arrivano sul rooftop e, dopo prove mai definitive né perfezionate, piene di accenni e sbavature, durante le quali non hanno preso un appunto che sia uno, vanno alla grande. Si trasformano in quelli che anche gli altri, quelli del mondo lì fuori, conoscono. Il dietro le quinte finisce e tu sei parte del pubblico, ma anche di chi quel concerto un po’ l’ha costruito con loro, in un modo magico, che ha formule a parte delle quali comunque non ti è stato dato di accedere.

Questo film ha, ed è, talmente tanto che osservazioni razionali e ragionate ce ne sarebbero da fare all’infinito; eppure, se proseguissi, continuerei a dirvi quello che ho fisso negli occhi, ancora: gli sguardi, la spontaneità, i tramezzini, capelli lunghi da lavare, la bellezza candida e intelligente di Lidia, quella meraviglia di sua figlia e i giochi semplici e ingenui di Ringo con lei.

Quell’immenso fuori onda che era la vita vera dei Beatles.

The Tender Bar (George Clooney, 2021)

Amazon da un po’ ha preso a fare sul serio anche coi film; Clooney ha cominciato da tempo, quantomeno come regista (ma è difficile trovarlo scadente anche in film… omonimi).

Ora, “premesso che non sono un esperto di cinema” (ma tanto non sono esperto di un sacco di roba… e voi mica sarete qui perché cercate gli esperti, no?), a me pare che il nostro stia procedendo con grande coerenza stilistica e stia anche consolidando già una cifra specifica, un modo di raccontare asciutto, nitido, che non cerca il picco ma la continuità, non strappa ma anzi lega, fino quasi a voler rasentare la normalità, narrando in toni e sequenze che hanno fluidità e molta misura.

In qualche modo sembra che, con molte delle sue scelte da regista e da produttore (ma in parte anche di attore), Clooney sia impegnato a disegnare una sorta di mappa identitaria del novecento USA, inanellando storie che mettono assieme percorsi personali e contesti sociali di una patria con cui Clooney sembra procedere in pace, senza la necessità di autocelebrazioni o condanne (usando al più una apprezzabile sobrietà quando accade).

Direte “ok, ma il film? Questo The Tender Bar com’è?”.

Vabbe’, per queste cose ci sono le recensioni di quelli bravi. Qui si parla d’altro, si parla intorno. Se volete partite come al solito da qui e via, ne saprete di più. Tra l’altro alcune cose che possono sembrare o proprio essere buchi di trama, mancati approfondimenti o altro ancora non ho modo di valutarli appieno, perché non ho letto il libro da cui il film trae sostanza e quindi non posso dire in quale manico sia il difetto.

Una nota di colore, è il caso di dire: il teal and orange è bello, ok, ne abbiamo preso tutti atto, compresi quelli che non sanno di averlo fatto, però non è che il mondo sia proprio bicolore, eh? Proviamo a uscirne un pochino?

Bello, magari non quel mezzo capolavoro di Monuments Men, ma bello.