“Ariaferma”, e dell’incurabile (mia) tendenza all’enciclopedismo

Avevo impostato questo “articolo” in modo un po’ troppo da critico cinematografico. Il film in questione contiene talmente tanto che raccontare ogni aspetto, ogni sfumatura (quelli che ho colto, naturalmente), rischia di fare un po’ troppo “Morandini”, tra l’altro senza che io ne abbia alcun titolo.

È anche vero che ci terrei ad appuntare tutto quello che ho in testa, fosse anche solo per me, ma stanotte mi sono svegliata col terrore che sarebbe risultato pesante, e anche che non è bello svelare tutto, né che chi mi legge sia condizionato nella visione del film da quello che io ci ho trovato.

E insomma, eccomi a cercare di “tratteggiare”, più che di raccontare; metterò da parte anche le questioni relative alla fotografia, di cui sono poco esperta ma che persino io mi accorgo dare un mirabile contributo di contenuto, oltre che estetico. Risolvo in poche parole anche la parte recitativa: Toni Servillo e Silvio Orlando eccezionali, senza i quali probabilmente il film non sarebbe la perla meravigliosa che è.

Ah già, vorrete almeno sapere di cosa stiamo parlando: “Ariaferma”, film del 2021 di Leonardo Di Costanzo, che narra di una specifica realtà, quella carceraria, ma che insieme vuole e sa essere universale.

Parla di tutte le nostre vite: di come le viviamo pietrificati nei ruoli che le convenzioni sociali ci assegnano e di quanto sia impossibile alla grandissima parte di noi vedere un’altra possibilità. Ci identifichiamo ognuno nel proprio personaggio, seguendo il solco di chi quel ruolo lo ha ricoperto prima di noi e quasi recitando una parte obbligata, di modo che la vita si trasforma in un gioco che – se siamo sfortunati – ci ha assegnato di essere malati o soggiogati o violenti e abbiamo davanti a noi – o meglio, contro – i curatori o gli aguzzini o le guardie, che ben esercitano la loro azione prevaricatrice. Due squadre l’una contro l’altra, i cui membri sanno essere solidali nella contrapposizione alla squadra avversaria, mentre singolarmente presi sono ugualmente irrisolti o ugualmente soli: tornando alla realtà carceraria del film, neanche l’ora d’aria è un momento di scambio e socializzazione, poiché non è che una “formalità”, una regola prevista dal gioco di cui si è pedine eterodirette. Quel cortile è un’estensione della cella, altrettanto soffocante.

Il ruolo della guardia non è meno irreggimentato: prevede di essere torvi, violenti, schiacciati dalla disciplina che si ha il dovere di far rispettare.

La felicità non esiste, in questo meccanismo che si nutre di sé; oppure esiste, ma la si può raggiungere solo se si ha la consapevolezza per interromperlo, quel meccanismo, mettendo un bastone nei suoi terribili ingranaggi.

Ed ecco che ad un certo punto in Ariaferma il personaggio chiave del film, l’agente Gargiulo, chiamato a gestire una situazione particolarmente critica, vede il bivio invisibile agli altri, la strada alternativa, quella mai battuta, tangente al circolo vizioso e che poi continua dritto, in una direzione su cui lui scommette alla cieca, assumendosene ogni responsabilità.

L’inatteso porta con sé stupore, paura, dissenso da parte degli altri. Dare fiducia ai detenuti, a partire dal più pericoloso tra loro? Una follia, una mossa non prevista da questi scacchi dalle pedine umane.

Ogni passo porta con sé un rischio enorme, ma la nostra “scheggia impazzita” prosegue in quella direzione; vale la pena rischiare, o comunque la soluzione può essere solo lì, nulla glielo toglie dalla testa, sebbene sia lui il primo a non conoscere le tappe e il punto di arrivo di quel percorso.

Di Costanzo ha l’immensa bravura di farci vivere questa esperienza con la lenta gradualità con cui realmente si svolge, senza strappi temporali o emotivi. Ognuno di quei passi porta con sé un impercettibile cambiamento – di sensibilità, di contesto, di consapevolezza, di relazioni – con la stessa efficace e paziente calma con cui, goccia dopo goccia, si formano le stalattiti.

Tanta gradualità rende il film tutt’altro che lento, come invece si potrebbe immaginare, poiché è accompagnata da un costante aumento della tensione: gli equilibri sono continuamente instabili e superati dal procedere degli eventi.

Il momento culminante della rivoluzione condotta da Gargiulo si compie in una cena, una commovente Ultima Cena profana – ma insieme sacra per il valore che con la sua rappresentazione dà a ogni uomo – che brilla di leggerezza, gioia, fratellanza, condivisione, dignità. Di azzardo, anche, perché in questo “fuori onda” ogni perimetro è cancellato, finalmente anche la gabbia mentale si è aperta.

È con questa scena, in cui tutti sono indistinguibilmente degni, che prende realmente senso quella che apre il film e in cui un gruppo di amici non è altro che questo – uomini senza etichetta, che ridono si divertono condividono – prima di entrare nel carcere e indossare le divise da guardia, che ingabbiano come quelle da carcerato.

La cena si svolge nel momento di massimo isolamento del carcere dalla realtà: appena i collegamenti con l’esterno si riattivano, tutto torna alla cruda normalità, quella dei criceti nella ruota e degli scacchi con pedine a forma di homo sapiens.

Sicché, è vero, la rivoluzione è stata temporanea, ma non è avvenuta invano; la lezione che dà resta indelebile: l’umanità genera umanità, svestirsi dei panni del proprio personaggio fa sì che gli altri facciano altrettanto e ci sentano vicini a loro, aldilà del ruolo che ognuno riveste. Da questo miracoloso contagio (in una delle ultime scene anche la più severa delle guardie sembra arrendersi all’evidenza che c’è un modo umano di fare le cose) nascono solidarietà, vicinanza, empatia e si evidenziano le differenze, le sfumature, le sfaccettature. Anche i dolori, sì, perché abbassare la corazza scopre, ma condividendoli si è meno soli.

Ecco perché, dicevo, questo film è universale: ognuno di noi ha la sua gabbia; la felicità è da qualche parte, fuori dalla nostra cella. Per dirla con Dalla, Maria vive nella casa in riva al mare, a portata dei nostri occhi ma oltre le nostre sbarre.

Diamo retta a Di Lorenzo e buttiamole giù, ora, tutti.