Mariella Nava live, Roma, 2/2/2023

Ci sono serate che sono inneschi, ripartenze, passaggi. Complici gli amici più saggi di me, eccomi spettatore di un evento ricorrennte per tutti e per ciascuno unico, un compleanno. La festeggiata è Mariella Nava, autrice, pianista e interprete di cui non occorre qui raccontare il grande valore. I suoi “birthday concert” (non credo che li chiamerebbe così…) sono sere attese e vissute da chi la ama con gioia, trasporto ed entusiasmo riservati solitamente ad artisti più appariscenti o proprio agli amici, quelli storici che abbiamo; l’atmosfera che si è creata -e che immagino felicemente simile nelle feste precedenti- è in sé un ulteriore motivo per esserci e volerci tornare.

Il luogo della festa è un piacevolissimo live club ma anche una piccola ambasciata calabra del cibo a Roma, accogliente e gustosa per simpatia dello staff e… menu: L’asino che vola.

Che bellezza.

Mariella è su un lato del palco, che da destra a sinistra vede lei, la tastiera, Sasà Calabrese al basso elettrico, Salvatore Cauteruccio all’a’accordion e Roberto Guarino alla chitarra acustica. A voler fare il critico musicale una prima bella cosa da dire è che insieme compongono un risultato efficace, compatto, ben suonante nonostante io fossi in una curiosa posizione come alcune foto chiariscono.

Resterei per un attimo ancora sugli aspetti più squisitamente musicali perché questo concerto e questa musicista lo meritano: sono un fessacchiotto, perché da trent’anni circa ogni volta che sento un suo brano ne resto colpito, talvolta affascinato, altre volte emozionato ed altre ancora interessato tecnicamente… e poi mi ritrovo a non aver mai approfondito come mi avrebbe fatto bene fare. Certe sere però sono ripartenze, si diceva, e quindi si fa sempre in tempo, no? Fessacchiotto ma con l’orizzonte davanti, mica robetta.

Dicevo, restando sui contenuti, che a rendere questo concerto vivo e vitale ci sono canzoni -molte ovviamente note a tutti- che arrivano regalando subito la percezione di una sincerità che le guida. Hanno dentro un gusto di scoperta a cercare e trovare dove si può la parola in più, quella magari successiva alla prima ispirazione, che ti fa entrare da una porta non nascosta ma laterale e prendere aria quando sei dentro. C’è tanta tanta tensione verso la melodia e il desiderio di farla viaggiare con le parole urlando dove serve, sorvolando gli accordi dove un ritornello può sembrare vento e farti quasi aprire le braccia mentre lo canti anche tu. E’ una miscela magica che funziona anche per motivi solidi e poco magici (o molto, ma tangibili) come il mestiere di scrivere, l’intenzione costruttiva di giocare con le armonie a portarsele su e giù per sollevare emozioni. Cosa che dal vivo riesce a Mariella in modo davvero diretto, con una voce vicina, calda e attaccata a quel che dice, con un pubblico a conoscerla e festeggiarla in due ore e mezza piene di sorrisi. Lei si sente forse quasi a casa, racconta, scherza, fa scivolare il tempo lungo il piacere di godersi canzoni messe su con cura.

C’è la torta, ci sono gli ospiti ad alternarsi, si tocca la sensazione che tutti, sul palco e sotto, vogliano stare bene prima ancora che ad un concerto. Di live belli o molto belli ne ho visti a dozzine, ma respirare un’aria così buona non è semplice, per cui, mentre ringrazio ancora gli amici saggi che hanno restituito a nuova bella musica un fessacchiotto, ringrazio pure Mariella Nava, che mi ha offerto verità, pienezza, carattere e una fetta di ottima torta.

Che bellezza, dicevo sopra. Adesso pure qui sotto.

Fabrizio Bosso – We Wonder – Live a Roma, 7/1/2023

Amici che ci leggete un po’ da dove vi pare, siamo stati per voi, per noi, per tutti ad ascoltare uno tra i più famosi trombettisti nazionali (diciamo nei primi tre per fama, dà) all’auditorium Parco della msica di Roma, per un live che era anche la presentazione di un album dedicato a Stevie Wonder, essere superiore che qui pacatamente definiamo senza girarci attorno uno dei più grandi geni della musica popolare.

Sul palco Bosso, come sempre sorridente e comunicativo col pubblico pur nel suo modo tranquillo e misurato, era in versione quartetto + ospite, con Julian Oliver Mazzariello al piano acustico ed elettrico, Jacopo Ferrazza al basso acustico ed elettrico e Nicola Angelucci alla batteria acustica e… no, niente, solo acustica. In più momenti l’ospite di cui sopra ha apportato un contributo notevolissimo in termini di musicalità, ricchezza e colore, e la cosa non stupisce visto che si è trattato di Nico Gori, che al sax e al clarinetto ha dato ancora una volta la prova che, quando dallo strumento si fa uscire musica comunicativa, l’artista può far dimenticare perfino che nel frattempo ha fatto cose tecnicamente rilevantissime, può riuscire a far diluviare applausi per la sua musica e non perché sia un fuoriclasse, nonostante lo sia. Si tratta di una qualità rara ma, forse proprio per questo, fisicamente percepibile quando si manifesta, sempre attraverso le note.

In un’ora e mezza di set le emozioni ovviamente con Stevie Wonder a guidare e questa lineup a suonare non sono mancate; il gruppo ha saputo rendergli omaggio con rispetto anche quando ha scelto di allontanarsi un po’ dal ricordo specchiato dell’originale. Le trasposizioni jazz dalla cosiddetta musica leggera han prodotto sicuramente molta bellezza ma anche un elevato numero di mostriciattoli, perché alterare una materia notissima al pubblico significa camminare sul filo del rasoio e averne consapevolezza è parte del mestiere di “musico”. Qui il livello non lasciava dubbi, ma aver ascoltato la conferma è stato bello.

Qualche perplessità riguarda questioni che in realtà partono paradossalmente proprio dal trovarsi ad ascoltare un bel quartetto che suona compatto e molto piacevolmente: La premessa infatti è assolutamente positiva: Bosso è un fiume di note ma non perde mai la bellezza del timbro, nitido e privo di spigoli se non quando intenzionalmente vuol mordere: Mazzariello ha leggerezza e dinamiche, la sezione ritmica funziona venendo penalizzata solo da un’acustica poco efficace che mette in secondissimo piano il basso e avvicina sonicamente i colpi sul rullante a quelli contro un bidone riverberato. Il punto però non è stato questo inconveniente: il punto è che, un po’ troppo spesso, sia Bosso sia Mazzariello partono da belle idee ma tendono a scivolare in consuetudini, in giochi di scale o frasi ripetute, in pattern melodici su variazioni armoniche, scelte che in qualche caso spostano l’equilibrio dei molti momenti di assolo (non troppi; molti) verso l’esercizio di stile, che -per esser chiari- è pur sempre eseguito a livelli alti, ma rischia di varcare il confine oltre il quale si può diventare leziosi. La cosa, ripeto, dispiace proprio perché il gruppo suona bene insieme, la musica è compositivamente quel che sappiamo e viene trattata con cura… insomma, è una sbavatura che arriva proprio per differenza con quanto il resto fili liscio. In questo senso, come si diceva sopra, Nico Gori aggiunge esattamente qualcosa in direzione opposta, con una intenzione melodica forte al punto da sovrastare le migliaia di quelle stesse note suonate fluide, morbide, con una cifra che per certi aspetti è affine proprio a quella di Bosso, con cui l’incontro ci appare certamente felice.

Si esce contenti, per un live che -al netto delle perplessità esposte- conferma la bravura e il successo meritato di Bosso e di un quartetto che sa stare insieme. Non è certo la prima volta che lo scrivente ascolta il nostro dal vivo, ma la voglia di rivederlo presto ed ascoltare nuova musica resta pulita e certa andando via. Il jazz non è morto come qualcuno dice (magari non se la passa benissimo, ma è questione comune a moltissima altra musica e non ne parleremo qui) e le facce sorridenti in uscita erano davvero tantissime.

Elio e le storie tese – Italyan, Rum Casusu Çikti

Trent’anni. Quelle cose dette così, “trent’anni”, che ti fanno dire cose di una banalità estrema e che quindi non dirò. Trent’anni che è uscito Italyan, Rum Casusu Çikti. Il lasso epocale di tempo che da piccolo misuravo per separare la musica che amavo da Nilla Pizzi mi separa adesso da questa meraviglia che per me è ancora del presente.

Ma dei bias parleremo magari un’altra volta, come pure dei licenziosi avvii di periodo col “ma”.

Conoscevo già Elio e le storie tese, avevo il primo album e li avevo visti live in un teatro tenda di Roma che nemmeno esiste più, ma che per i romani era quello di Renato Zero e per gli italiani quello di Lucio Dalla in Borotalco di Carlo Verdone (“STAI, LUCIO, STAI!” non uscirà mai più dal repertorio comico di chi voglia fare citazioni). I ragazzi erano ovviamente più acerbi, ma che fossero geniali era già evidente, e il seguito di quell’LP di debutto, che era un po’ una raccolta delle prime canzoni fatte negli anni, era atteso da tanti di noi con la curiosità di chi vuol capire se la promessa verrà mantenuta.

L’acquisto in effetti fu immediato all’uscita.

Elio e le storie tese copertina album Italyan, Rum Casusu Çikti

Rocky (il gigantesco Ferruccio Amendola) introduce il coro delle voci bulgare che introduce Servi della gleba, che parte a bomba come fossimo al live di una tribute band dei Toto. Un inizio clamoroso, con dentro il basso a SLAPPARE, coretti scemi, timbri curati e ritornello fichissimo.

Il tutto mi fece subito pensare alla partenza di un mezzo capolavoro.

Che poi non era mezzo.

L’avanspettacolo di Arriva Elio la butta in caciara con l’autopresentazione da teatrino del gruppo, ma si capisce già che, più che alla nuova Alfieri, i nostri vogliono giocare a fare una Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band che la prende a ridere. Infatti arriva Uomini col borsello, e ad accompagnare ci sono nientemeno che i Chieftains, in un crescendo che passa poi per i Pooh, citati dal diretto interessato Riccardo Fogli. I suoni, gli effetti e gli arrangiamenti marcano nel frattempo un notevole salto in avanti rispetto al debutto.

Il vitello dai piedi di balsa è una favola che parte in filastrocca e poi, nel suo drammatizzarsi, comincia a rifinire una delle principali caratteristiche del complessino, in questo suo giocare di contrasti mettendo assieme una forma di sacro e profano che non si accontenta della religione, ma accorpa di tutto col gusto di volerlo fare in modo efficace, che faccia ridere, che funzioni. Ecco che allora, per esempio, tra varie finte zampe arriva la chitarra che cita i Pink Floyd, arriva Enrico Ruggeri che di fatto fa la caricatura di sé, arriva “la pena aggiuntiva” per il vitello mentitore che aprirà un rito ininterrotto, trent’anni di concerti in cui decine di brutte canzoni hanno occupato quei secondi, in uno dei molti momenti che ci ricordano quanto sia stato bello aver avuto in regalo dalla musica Frank Zappa.

Cartoni animati giapponesi diventa, in questa sequenza micidiale, un brano minore suo malgrado, perché quasi qualunque gruppo andrebbe fiero di averlo in repertorio e qui il suo problema è solo l’esser circondato da irresistibili perle, tant’è vero che a seguire, dopo il siparietto di Cinquecento, arriva Supergiovane, capolavoro multistrato tempestato di brillantini che riflette eternità da qualunque lato lo si guardi: testo scoppiettante come la Vespa guidata dal supereroe, una storia epica costruita su minchiate, cambi di atmosfera da suite prog cazzona, un coro gospel per dei botta e risposta velocissimi sul nulla, l’omaggio a Paolo Conte, arrangiamenti fichissimi. Elio e le storie tese fanno sul serio, l’ascolto arriva a questo brano certificando che nella musica italiana è accaduto qualcosa di nuovo che non finirà presto.

Ora: andrebbero snocciolati altri grandi brani che seguono.

Per esempio il grandissimo Pipppero col coro delle voci bulgare (il quale, peraltro, da quel momento avrà in Italia un grande meritato successo a sé offrendo un’esperienza dal vivo eccezionale, come può testimoniare ad esempio lo scrivente). Oppure La vendetta del fantasma formaggino, con Diego Abatantuono che nell’album passa di ruolo da fruttarolo e Dio della barzelletta, tra citazioni d’infanzia e Jesus Christ Superstar.

Siccome però in trent’anni sono uscite tonnellate di recensioni non è che dobbiamo star qui a staccare brani dall’album come piselli dal baccello, quindi chiudo qui questa parte e vado anche un po’ a concludere, così non mi perdete concentrazione: da questo grandioso album in poi è di fatto stata possibile avere a che fare col più grande gruppo italiano dei tre decenni successivi, ma già a volerlo guardare da solo questo disco è tra gli imperdibili della musica italiana.

Bill Meyers – Images

Dovesse venir fuori una rubrica sugli album da isola deserta, quindi fino al tuo arrivo inutilmente dotata di elettricità, lo scrivente sarebbe in bilico tra questo e altri due o tre capolavori e a quel punto pazienza, porterebbe un maglione in meno e alé, ci stanno tutti.

Prologo

Chi cacchio sia Bill Meyers è una domanda che può sopraggiungere con una probabilità abbastanza elevata. Succede però che poi uno ascolta ad esempio l’intro di archi di Papa don’t preach della più famosa Ciccone della storia musicale e… sì, roba sua, come per parecchie altre cose belline tra pop, colonne sonore e produzioni varie.

La copertina è questa. La specificazione è dovuta, perché i vinile-addicted, i cercatori di CD rari e via elencando troveranno questo album, quando lo troveranno, in almeno quattro copertine diverse, di cui una uguale qìa questa ma con font più chiaro e più brutto

Succede spesso, però, che quando sei un grande musicista, arrangiatore, conoscitore profondo delle meccaniche su cui si fonda un brano, vuoi divertirti con una cosa tutta tua. Bill Meyers qui (1986) ha scelto di farlo alla grandissima, alla enorme, con un progetto con dentro tanti elementi che già presi singolarmente renderebbero difficile un progetto: alla base un ensemble che all’epoca poteva rientrare nel perimetro della fusion, musicisti di altissimo livello (cercate l’elenco dettagliato in rete, tanta tanta roba), una sezione archi, poi ottoni, legni, synth, pianoforte, l’incrocio di generi musicali distanti tra loro per carattere, timbri e secoli, tutto registrato live in studio su due piste.

Il risultato di tutta questa mostruosa ingegneria è mezz’ora di miracolo musicale carica di creatività, caleidoscopica, con uno spettro sonoro gigantesco e pochissimi difetti.

La tracklist

Si parte con AM, proprio una sveglia che suona già nel traffico con l’arrivo dei clacson, un inizio da cittadini e un’impostazione molto USA, che tutto sommato abiterà l’album un po’ ovunque. Orchestrazione poderosa, drumming nettissimo e frontale, assolo di piano che ti si porta appresso ovunque tu sia, potenza e pulizia da vendere.

PM. Si torna a casa, si rallenta in un jazz intimo con piano elettrico riverberato, chorus a manetta sulla chitarra e un formidabile Ernie Watts al sax. Fusion di livello molto alto, elegante e sospesa, che cede solo negli ultimi tre accordi al rilassamento completo.

Voyager comincia con un organo stellare in un tema efficacissimo che si fa raggiungere da diversi strumenti a fiato e, con qualche americanata di troppo, entra in un passaggio di synth che inventa un crescendo di tensione armonica con un passaggio fichissimo, che dall’improvviso pianoforte apre su un ritmo tosto e dritto dritto verso il suo stesso raddoppio, col basso che va di slap lungo un solo di chitarra teso e diagonale, fino ad arrivare su variazioni orchestrali interrotte da quattro interventi micidiali di batteria dell’allora giovanissimo Vinnie Colaiuta che spalancano a piena orchestra il ritorno ai temi affrontati nel brano. Spettacolare.

Heartland parte di intro sintetica per poi introdurre al piano un tema che viene ripreso in diverse ambientazioni di arrangiamento successive ed entra in un quattro quarti diretto diretto, che si interrompe con un ponte d’archi pronti a diventare protagonisti nel ritorno ritmico, su cui un italiano difficilmente non dirà “rondò veneziano!”. Alcuni passaggi da lì al finale sembrano proprio testimoniare che Meyers voleva giocare con tutti i suoni a disposizione e farli interagire nel trionfo finale.

Time warp si propone con due parti distinte in cui si viaggia per l’appunto nel tempo, presentando uno specifico tema di partenza che viene usato prima in veste jazz con orchestrazione classicheggiante e sax soprano molto raffinato in un solo bellissimo, e poi con l’elettronica su cui, tra piani elettrici e basso sintetizzato, viene costruita una seconda sezione nervosa e serrata.

Pastorale chiude col protagonismo del pianoforte che introduce una melodia di grande cantabilità e diventa ariosa volata d’orchestra, coi synth a colorare alcuni passaggi, arrangiamenti d’archi a suddividere i contesti e di nuovo il pianoforte splendido attore principale che, salendo di densità, porta sulla ripresa con la chitarra elettrica e il ritorno al tema con l’insieme musicale al completo, partecipe di un finale degno del capolavoro assoluto che questo album è, chiuso da tre accordi di piano in solitaria.

Vado a concludere, via…

Lo ascolto frequentemente dalla sua uscita, cosa di cui all’epoca venni a conoscenza (come di molte altre uscite) grazie a Richard Benson ed al suo Ottava Nota, programma fondamentale di una piccola emittente romana e di cui molti italiani conoscono solo la versione cinematografica, Jukebox all’idrogeno, con cui Carlo Verdone ha voluto rendere omaggio ad una grande trasmissione nel film Maledetto il giorno che t’ho incontrato.

Credo sia un album che non mi stancherà mai. Credo anche che, a parte qualche suono un po’ datato che magari tornerà di moda, sia un lavoro con scelte timbriche non troppo legate al suo tempo.

Registrato in modo splendido, con grandissima pulizia e sapienza e col mastering curato da Bernie Grundman. Personalmente l’ho usato spesso come riferimento per testare componenti hi-fi.

Dateme indubbiamente retta. È bellissimo.

“The Beatles: Get Back”: la grande bellezza

I trailer, si sa, esagerano. Quello di The Beatles: Get Back no.

Anzi, guardatelo a visione del film avvenuta e vi metterà un’adrenalina pazzesca, perché solo voi che l’avrete già visto saprete che è proprio così: pazzesco come lo dipingono in quei 4 minuti.

Le 8 ore del film-documentario sono entrate nella mia vita a gamba tesa, lasciandomi dentro delle onde in movimento continuo, a risuonare con i miei pensieri; non sono una musicista e neppure una fan accanitissima dei quattro (oddio, ora un po’ sì!), eppure Get Back ti scuote, chiunque tu sia.

Gli elementi senza i quali l’eccezionalità del contenuto non sarebbe bastato a dare tanta emozione sono la nitidezza delle immagini e la loro “fulgida rotondità” (non saprei come dire altrimenti). I volti, gli sguardi, le pieghe, i colori, i riflessi, sono così ben definiti che in un attimo mi sono ritrovata tra i Beatles, incredula di averli intorno a me e chiedendomi come possa il mondo essere convinto che due di loro siano morti e gli altri due molto invecchiati, se la verità vera che tanto realismo dimostra è che hanno tutti sui 27 anni e godono di ottima salute, nonostante i triliardi di sigarette che fumano tutto il tempo.

La storia scorre e ogni attimo sai che stai per scoprire qualcosa che non conosci. No, non lo conosci, perché ogni scena è inedita e vera e tu hai vinto l’incommensurabile lotteria di potervi assistere in diretta, in presenza, lì, mentre si svolge e il resto del mondo ne è all’oscuro.

Questo senso di ubriacatura ti accompagna tutto il tempo, mentre scopri che un concerto pazzesco tenuto senza autorizzazioni su un tetto londinese non è il momento finale di un progetto architettato nei minimi dettagli dai musicisti e da chi li segue e produce, bensì il risultato di tre settimane caotiche e disordinate… talmente tanto che, sebbene il finale storico mi fosse noto, ho avuto per tutto il tempo la preoccupazione che non ce l’avrebbero mai potuta fare, andando avanti di quel passo.

I quattro hanno pochi giorni a disposizione per tirare fuori una dozzina di canzoni nuove. Una full immersion durante la quale sono prima chiusi in uno spazio ampio e quasi asettico, arredato da poche sedie e dai loro strumenti, in cui non possono fare altro che essere sé (“Abbiamo solo noi stessi”, dicono ad un certo punto), per poi passare nello studio di registrazione.

Il calendario scorre veloce ma loro procedono lentamente, senza patemi e – stupore – senza metodo. Dall’alto del mio scranno vorrei mettere loro fretta, ma devo limitarmi ad assistere e a fare un po’ alla volta la loro conoscenza.

Paul è carismatico, fascinoso, risoluto, ambizioso. Se lo avessi conosciuto, a quell’età, me ne sarei follemente innamorata, non ricambiata. È anche il più preciso, il più strutturato, il più “progettuale”.

È ingannando la noia, in attesa dell’arrivo degli altri, che una mattina accenna scomposto quella che diventerà Get Back, mentre tu vivi commosso la bellezza del momento creativo e la sua incredibile casualità ed estemporaneità. Dopo poco arriva George, che si mette accanto a lui, incuriosito, dando qualche ulteriore spunto, con la stessa leggerezza di chi ti dà una mano a finire il cruciverba.

E poi Paul è il genio. Scoprire come nasce il BLANG! BLANG! di “Maxwell’s Silver Hammer” è qualcosa di impagabile.

John invece è distratto, svogliato, ritardatario. Un incrocio tra il troll e l’intelligente che non si applica. A volte quasi mi innervosisce; gli altri sgobbano e lui… bah.

Ringo è l’imperscrutabile Buddha, l’uomo che – pur parlando poco o niente – tutto osserva e tutto sa; dalla sua postazione sembra fare da collante e tenere la pace nel gruppo. Siamo diventati amici, io e Ringo.

George è quello che capisco meno; è di tutti forse il più problematico, il più irrisolto, o semplicemente il più complesso.

Li osservo mentre fumano, ridono, mangiano, fumano, cantano, fumano, sbadigliano, bevono, si divertono, si sfaldano e si riuniscono ed è vita vera, bella, mentre i giornali scrivono cose senza senso su di loro, che ci scherzano su, nei pochi momenti di pausa in cui non si rilassano suonando brani di ogni tipo.

Sul timore che il tetto del palazzo – il famoso rooftop – possa non reggere il peso loro e degli strumenti invece non scherzano; e anche stupirsi di questo momento così pratico, da organizzazione della sagra di paese, è stato emozionante. Così come partecipare al coinvolgimento, ad un certo punto, di Billy Preston: gioioso, musicale, sorridente (e ovviamente bravissimo!).

Poi arrivano sul rooftop e, dopo prove mai definitive né perfezionate, piene di accenni e sbavature, durante le quali non hanno preso un appunto che sia uno, vanno alla grande. Si trasformano in quelli che anche gli altri, quelli del mondo lì fuori, conoscono. Il dietro le quinte finisce e tu sei parte del pubblico, ma anche di chi quel concerto un po’ l’ha costruito con loro, in un modo magico, che ha formule a parte delle quali comunque non ti è stato dato di accedere.

Questo film ha, ed è, talmente tanto che osservazioni razionali e ragionate ce ne sarebbero da fare all’infinito; eppure, se proseguissi, continuerei a dirvi quello che ho fisso negli occhi, ancora: gli sguardi, la spontaneità, i tramezzini, capelli lunghi da lavare, la bellezza candida e intelligente di Lidia, quella meraviglia di sua figlia e i giochi semplici e ingenui di Ringo con lei.

Quell’immenso fuori onda che era la vita vera dei Beatles.