Erbacce Lab – Bracciano (RM)

Bracciano è un borgo di quelli a cui si addice il classico “da visitare”, con vicoli, scalette, piccoli negozi e una vista sul lago che lascia ricordi nitidi perfino rinunciando ai selfie. A camminare, si sa, viene fame, ma capita pure gente come noi che viene qui apposta per mangiare in un posto da conoscere e quindi, già che c’è, cammina pure.

Nel centro del centro c’è una piccola bottega, vista da fuori, che dentro è un’esperienza di cibo e incontri. Ci viene spontaneo come certe erbacce dire che Sara -a cucinare- e Giovanna -ai tavoli- sono uno dei motivi per cui venire qui.

Si entra. Il locale è piccolo ma accoglie perché è stato evidentemente concepito per farlo: i pochissimi tavoli vanno in profondità per una striscia di qualche metro sulla sinistra, un bancone con sgabelli li separa -intenzionalmente poco- dalla parte destra, che è tutta cucina. Non è soltanto ascoltare i suoni del lavoro di preparazione, ma anche poter chiacchierare con la cuoca (“non sono chef, faccio la cuoca”) dei piatti, dell’idea che c’è dietro, di quel che nasce sul momento discutendone magari di qua con Giovanna che estende a Sara quando l’argomento si fa coinvolgente.

Entrambe sanno essere discrete col tavolo che in qualche modo suggerisce di farlo, ma il loro entusiasmo non va confuso semplicemente coi casi in cui si scrivono nelle recensioni cose come “servizio informale”: è qualcosa di intrinsecamente diverso, è d’anima, c’è il gusto di scambiarsi impressioni e parole perché una giornata “necessariamente” a contatto con gli altri passata così è più piena e ricca. Allora ecco che ci si trova a parlare di ingredienti, sapori, esperienze, cotture, assaggi non per far convivio tecnico (ambito in cui peraltro lo scrivente non sarebbe all’altezza) ma per amore di terra, lavoro e gusto, per godersi la bellezza di un momento condiviso che riguarda il mangiare e bere.

Direi che i piatti in dettaglio non ve li raccontiamo. Il menù è corto e variabile, la filosofia e gli intenti che stanno alla base di questo posto prima ancora delle fondamenta del suo palazzo sono cura per una materia prima cercata con determinazione ma non obbligata dalla ricetta ad essere questo o quello. Le erbacce nel nome sono… erbe, spontanee, selvatiche, dall’orto, trovate da un produttore vicino, scoperte da poco, trasformate attraverso il loro utilizzo per farne ripieni, contorni, abbinamenti, salse e quant’altro la loro sostanza inviti a creare.

I risultati sono splendidi. Nelle preparazioni c’è sicuramente attenzione e tecnica, nonché un gusto estetico su forme, colori e abbinamento materiale col piatto di servizio, ma nessuna delle diverse portate arrivate al tavolo da quattro ha avuto con sé una qualche pur minima prosopopea, solennità, velleità formale nella presentazione a voce o nell’impiattamento. È, questo, un equilibrio parecchio delicato, perché la rispondenza tra le intenzioni di cucina e di proposta e la resa in tavola è fatta di mille fattori e qui succede soltanto che la passione per un mestiere non semplice finisce dritta sul piatto, condivisa senza aggiungere, senza condimenti o parole ridondanti.

Le carni sono di allevamenti vicini, così vicini che si conosce bene non solo il produttore ma pure l’animale diventato cibo. È una catena in cui ogni anello viene rispettato il più possibile.

Durante il pranzo può capitare di scorgere Sara che, dalla cucina, lavorando cerca di captare sensazioni e commenti ai piatti. Se c’è modo e tempo è lei stessa a fare quattro passi (numericamente forse dieci) per venire al tavolo a chiedere opinioni e confrontarsi coi clienti. Personalmente l’ho ascoltata a confrontarsi con grande umiltà ed empatia anche con un cliente della categoria “questo piatto è un po’ strano perché a me piace come l’ho mangiato a <segue luogo esotico a sufficienza da evocare verità assolute>”. Questi sono gli stress test che mi fanno riconoscere le persone di valore, attraverso lo stile con cui sanno stare al mondo.

Giovanna racconta con sorridente rigore i piatti e il motivo per cui son fatti come son fatti. La scelta del vino con lei è un altro momento divertente, a dimostrare che la professionalità e la competenza non devono essere per forza roba pesante e che con le cose belle è bello giocare.

Si va via contenti e con la voglia di tornare presto, si spende una cifra giustissima per quel che si mangia e per come lo si mangia. Il vino ha ricarichi sensati.

Un plus per chi capiti di passaggio e magari senza il tempo o la voglia di sedersi al tavolo: vari piatti vengono anche offerti a portar via, e se siete in zona non c’è nessuna ragione per cui possiate perdervi per esempio la focaccia alle erbe. Proprio nessuna.

Bravissime loro. Voi invece datece retta!

Ah, giusto: stanno qui.

Mariella Nava live, Roma, 2/2/2023

Ci sono serate che sono inneschi, ripartenze, passaggi. Complici gli amici più saggi di me, eccomi spettatore di un evento ricorrennte per tutti e per ciascuno unico, un compleanno. La festeggiata è Mariella Nava, autrice, pianista e interprete di cui non occorre qui raccontare il grande valore. I suoi “birthday concert” (non credo che li chiamerebbe così…) sono sere attese e vissute da chi la ama con gioia, trasporto ed entusiasmo riservati solitamente ad artisti più appariscenti o proprio agli amici, quelli storici che abbiamo; l’atmosfera che si è creata -e che immagino felicemente simile nelle feste precedenti- è in sé un ulteriore motivo per esserci e volerci tornare.

Il luogo della festa è un piacevolissimo live club ma anche una piccola ambasciata calabra del cibo a Roma, accogliente e gustosa per simpatia dello staff e… menu: L’asino che vola.

Che bellezza.

Mariella è su un lato del palco, che da destra a sinistra vede lei, la tastiera, Sasà Calabrese al basso elettrico, Salvatore Cauteruccio all’a’accordion e Roberto Guarino alla chitarra acustica. A voler fare il critico musicale una prima bella cosa da dire è che insieme compongono un risultato efficace, compatto, ben suonante nonostante io fossi in una curiosa posizione come alcune foto chiariscono.

Resterei per un attimo ancora sugli aspetti più squisitamente musicali perché questo concerto e questa musicista lo meritano: sono un fessacchiotto, perché da trent’anni circa ogni volta che sento un suo brano ne resto colpito, talvolta affascinato, altre volte emozionato ed altre ancora interessato tecnicamente… e poi mi ritrovo a non aver mai approfondito come mi avrebbe fatto bene fare. Certe sere però sono ripartenze, si diceva, e quindi si fa sempre in tempo, no? Fessacchiotto ma con l’orizzonte davanti, mica robetta.

Dicevo, restando sui contenuti, che a rendere questo concerto vivo e vitale ci sono canzoni -molte ovviamente note a tutti- che arrivano regalando subito la percezione di una sincerità che le guida. Hanno dentro un gusto di scoperta a cercare e trovare dove si può la parola in più, quella magari successiva alla prima ispirazione, che ti fa entrare da una porta non nascosta ma laterale e prendere aria quando sei dentro. C’è tanta tanta tensione verso la melodia e il desiderio di farla viaggiare con le parole urlando dove serve, sorvolando gli accordi dove un ritornello può sembrare vento e farti quasi aprire le braccia mentre lo canti anche tu. E’ una miscela magica che funziona anche per motivi solidi e poco magici (o molto, ma tangibili) come il mestiere di scrivere, l’intenzione costruttiva di giocare con le armonie a portarsele su e giù per sollevare emozioni. Cosa che dal vivo riesce a Mariella in modo davvero diretto, con una voce vicina, calda e attaccata a quel che dice, con un pubblico a conoscerla e festeggiarla in due ore e mezza piene di sorrisi. Lei si sente forse quasi a casa, racconta, scherza, fa scivolare il tempo lungo il piacere di godersi canzoni messe su con cura.

C’è la torta, ci sono gli ospiti ad alternarsi, si tocca la sensazione che tutti, sul palco e sotto, vogliano stare bene prima ancora che ad un concerto. Di live belli o molto belli ne ho visti a dozzine, ma respirare un’aria così buona non è semplice, per cui, mentre ringrazio ancora gli amici saggi che hanno restituito a nuova bella musica un fessacchiotto, ringrazio pure Mariella Nava, che mi ha offerto verità, pienezza, carattere e una fetta di ottima torta.

Che bellezza, dicevo sopra. Adesso pure qui sotto.

Fabrizio Bosso – We Wonder – Live a Roma, 7/1/2023

Amici che ci leggete un po’ da dove vi pare, siamo stati per voi, per noi, per tutti ad ascoltare uno tra i più famosi trombettisti nazionali (diciamo nei primi tre per fama, dà) all’auditorium Parco della msica di Roma, per un live che era anche la presentazione di un album dedicato a Stevie Wonder, essere superiore che qui pacatamente definiamo senza girarci attorno uno dei più grandi geni della musica popolare.

Sul palco Bosso, come sempre sorridente e comunicativo col pubblico pur nel suo modo tranquillo e misurato, era in versione quartetto + ospite, con Julian Oliver Mazzariello al piano acustico ed elettrico, Jacopo Ferrazza al basso acustico ed elettrico e Nicola Angelucci alla batteria acustica e… no, niente, solo acustica. In più momenti l’ospite di cui sopra ha apportato un contributo notevolissimo in termini di musicalità, ricchezza e colore, e la cosa non stupisce visto che si è trattato di Nico Gori, che al sax e al clarinetto ha dato ancora una volta la prova che, quando dallo strumento si fa uscire musica comunicativa, l’artista può far dimenticare perfino che nel frattempo ha fatto cose tecnicamente rilevantissime, può riuscire a far diluviare applausi per la sua musica e non perché sia un fuoriclasse, nonostante lo sia. Si tratta di una qualità rara ma, forse proprio per questo, fisicamente percepibile quando si manifesta, sempre attraverso le note.

In un’ora e mezza di set le emozioni ovviamente con Stevie Wonder a guidare e questa lineup a suonare non sono mancate; il gruppo ha saputo rendergli omaggio con rispetto anche quando ha scelto di allontanarsi un po’ dal ricordo specchiato dell’originale. Le trasposizioni jazz dalla cosiddetta musica leggera han prodotto sicuramente molta bellezza ma anche un elevato numero di mostriciattoli, perché alterare una materia notissima al pubblico significa camminare sul filo del rasoio e averne consapevolezza è parte del mestiere di “musico”. Qui il livello non lasciava dubbi, ma aver ascoltato la conferma è stato bello.

Qualche perplessità riguarda questioni che in realtà partono paradossalmente proprio dal trovarsi ad ascoltare un bel quartetto che suona compatto e molto piacevolmente: La premessa infatti è assolutamente positiva: Bosso è un fiume di note ma non perde mai la bellezza del timbro, nitido e privo di spigoli se non quando intenzionalmente vuol mordere: Mazzariello ha leggerezza e dinamiche, la sezione ritmica funziona venendo penalizzata solo da un’acustica poco efficace che mette in secondissimo piano il basso e avvicina sonicamente i colpi sul rullante a quelli contro un bidone riverberato. Il punto però non è stato questo inconveniente: il punto è che, un po’ troppo spesso, sia Bosso sia Mazzariello partono da belle idee ma tendono a scivolare in consuetudini, in giochi di scale o frasi ripetute, in pattern melodici su variazioni armoniche, scelte che in qualche caso spostano l’equilibrio dei molti momenti di assolo (non troppi; molti) verso l’esercizio di stile, che -per esser chiari- è pur sempre eseguito a livelli alti, ma rischia di varcare il confine oltre il quale si può diventare leziosi. La cosa, ripeto, dispiace proprio perché il gruppo suona bene insieme, la musica è compositivamente quel che sappiamo e viene trattata con cura… insomma, è una sbavatura che arriva proprio per differenza con quanto il resto fili liscio. In questo senso, come si diceva sopra, Nico Gori aggiunge esattamente qualcosa in direzione opposta, con una intenzione melodica forte al punto da sovrastare le migliaia di quelle stesse note suonate fluide, morbide, con una cifra che per certi aspetti è affine proprio a quella di Bosso, con cui l’incontro ci appare certamente felice.

Si esce contenti, per un live che -al netto delle perplessità esposte- conferma la bravura e il successo meritato di Bosso e di un quartetto che sa stare insieme. Non è certo la prima volta che lo scrivente ascolta il nostro dal vivo, ma la voglia di rivederlo presto ed ascoltare nuova musica resta pulita e certa andando via. Il jazz non è morto come qualcuno dice (magari non se la passa benissimo, ma è questione comune a moltissima altra musica e non ne parleremo qui) e le facce sorridenti in uscita erano davvero tantissime.

Proloco Trastevere – A spasso nel territorio, con amore

Trastevere, luogo bellissimo di Roma e dell’anima che però, a più di qualche romano, fa scappare istantameamente qualche parolina subito dopo l’anima suddetta. Per gli anzianotti diciamo croce e delizia e usciamone così, con delicatezza. In questa continua passeggiata tra piccole e grandi meraviglie tra fiume e Gianicolo si può dire che togliersi la fame in qualche modo e in qualunque ora è semplicissimo. Un po’ più di cura è invece richiesta volendo anche un’esperienza di qualità; ancor di più -ma questa è proprio la vita, mi sa- c’è da cercare se si vogliono anche incontrare persone belle, con cui diventa bello incontrarsi la volta successiva con la scusa di tornare.

Elisabetta Guagliarone è la padrona di casa; dalla cucina esce quando può e ti racconta quel che fa, con la passione di chi tiene al cosa e al come. Il suo compagno Vincenzo Mancino è da tempo un ambasciatore culinario del Lazio per la sua selezione attenta di prodotti e produttori regionali meritevoli del suo “marchio” DOL (Di Origine Laziale), realtà gastronomica nata a Centocelle e, per farvi una prima idea, visitabile qui. Le materie prime, insomma, sono anch’esse questione di casa, gestite con la consapevolezza e la determinazione di voler arrivare fino al piatto lungo un percorso di cui si conoscono partenza e tappe.

Il menu è divertente, è diretto, non si preoccupa di distinguere tra innovazione e tradizione, né di starci in mezzo o di appartenere a uno dei due estremi. E’ semplicemente il risultato del modo in cui si ragiona a monte: gli ingredienti vengono rispettati perché hanno singolarmente da dire qualcosa, sicché a tavola arriva esattamente la logica conseguenza, arricchita da un colore che solo le passioni sanno dare e che qui è amore per il lavoro che si fa.

Forse il modo migliore per conoscere Elisabetta e la sua cucina è il pranzo contadino, in cui gli antipasti di quella domenica diventano i compagni di tavola arrivando tutti assieme, presentati e spiegati.

La caccia all’aggettivo, quando vuoi scrivere di viaggi così belli tra i sapori, è tra gli sport estremi coi risultati più pericolosamente ridicoli. Evitando perciò di intrattenerci in tale pratica, l’invito che vi facciamo è di prendere una mattina e la curiosità, lasciarvi portare da loro verso Trastevere (e verso Roma per chi chiama da fuori Roma), guardare in su e in giro mentre camminerete, stancarvi un po’ perché magari salirete pure sul colle a guardare la città dall’alto, entrare in questo posto accogliente e godervi un’esperienza che lascia un po’ di sazietà e un po’ di fame in arrivo per la volta successiva che vorrete.

Bravissima, Elisabetta. Si sta bene, da te.

Trovare Proloco qui

Trattoria Centrale C’era Una Volta…1891, Anagni

(ultima visita: ottobre 2022)

Anagni, luogo dal passato così importante che Elio la definirebbe la terra dei papi… ok, cercate su Wikipedia, qui cominciamo già malino e capite bene che per imparare serve cercare altrove.

Tra le tante cose belle da fare qui… sì, ci si può anche mangiare.

Ci è parso di capire che i posti buoni per mangiare qui non mancano, sicché la scelta non è stata istantanea. La posizione è centralissima, lungo il viale principale, incredibilmente non pedonalizzato -un’assurdità purtroppo consueta sulle cui motivazioni non staremo a spendere parole ora-. La piazza che ospita il ristorante, adibita a parcheggio, ha un bel panorama sulla valle sottostante e invita perciò a guardare dal lato aperto: ecco, per entrare nel ristorante cortesemente voltatevi perché il suo lato è quello opposto.

Uno stretto corridoio che sembra condiviso con altre proprietà vi conduce nella sala al chiuso, ma c’è anche uno spazio aperto, non grande ma molto piacevole, con vista sulla parte superiore della facciata di una chiesa (i paesi che affacciano su una valle, avrete avuto modo di vederlo anche nelle vostre eistenze, tendono a scarseggiare in strade pianeggianti). Arriva il menu e c’è qualche minuto per pensarci sopra e prepararsi domande che diverranno suggerimenti da uno staff preparato e d’esperienza, che quanto a informalità sembra muoversi valutando con mestiere il cliente che ha di fronte.

Gli antipasti combinati proposti in carta sono abbondanti e particolarmente appetitosi; su richiesta viene anche indicato cosa sia locale e cosa no; in generale si avverte che c’è consapevolezza circa la qualità che si intende offrire, e in questo senso il panorama sulle carni è di ampiezza simile a quello della valle sulla suddetta piazza. Da parte nostra la faccenda si è molto positivamente dichiarata appagnate con uno degli antipasti della casa, un’opulenta fettuccina con broccoli e guanciale, una quaglia lardellata e una cicoria, ma davvero l’antipasto è una sequenza notevole di bontà.

Complessivamente la sensazione, anche guardando il passaggio delle ordinazioni altrui, è quella di una cucina che non ha alcuna paura ad esprimersi con personalità e presenza, col condimento che non sta lì nell’angolo a far tappezzeria, ma diciamo che parlando di borghi del Lazio e di una trattoria la collocazione dell’approccio dovrebbe esser già nota. Si va proprio in quella direzione ma con buone materie prime e mano de core, il tutto senza tralasciare che comunque nell’antipasto c’erano per esempio una tartare e un carpaccio trattati con rispetto e misura.

Fa molto molto piacere la possibilità di bere non solo al calice ma anche bene. Questa cosa nelle gestioni delle trattorie diciamo “per tutti” è notevolmente e diffusamente sottovalutata, perché è evidente che non sempre si vuole o può prendere una bottiglia, e non si vede perché si debba per forza planare su uno sfuso spesso non all’altezza del cibo. Questo è uno dei motivi e delle evidenze per cui tornare qui al prossimo giro ad Anagni.

Si va via spendendo una cifra assolutamente corretta, contenti di pancia e di aver conosciuto una realtà ben rodata ed efficace.

Bravi loro. Quanto a noi, ovviamente, questo è certamente un luogo da #datemeretta!

Fosco bistrot

(ultima visita: luglio 2022)

Le Langhe sono un’area in cui il modo di porsi non è asservito al turismo (tranne due o tre casi di cui non staremo a parlarvi qui, in un blog che dedichiamo alle cose belle). Ci sono accoglienza, disponibilità e una simpatia sobrie, con una misura anche nei toni che a noi è parsa innata. In cinque giorni abbiamo girato un tot e questo posto ci è piaciuto moltissimo, ma ecco che andiamo a spiegare.

Il territorio, lo sapete sicuramente in tanti, non è vastissimo, quindi il posto è certamente raggiungibile a partire da qualunque paese della zona, ma diciamo che siamo nelle vicinanze di Grinzane Cavour e Diano d’Alba. Il bistrot è lungo una strada grande che di suo non invoglia a cercare proprio lì meraviglie, né di suo ispira a ipotizzare l’arrivo di improvvise chicche.

E invece.

Da fuori sono ancora una volta la sobrietà e un’eleganza non ostentata a presentare il locale, estensione culinaria della cantina Salvano. Le grandi vetrate introducono già verso le due sale, ampie, ospitali, dagli alti soffitti, forse un po’ algide per qualche scelta architettonica o di arredo. Poco male, perché il servizio è attento, sorridente e “umano”, pur mantenendo al primo posto uno stile pulitissimo, asciutto.

Ho optato per la scelta più utile secondo me a conoscerli estensivamente, cioè il menù degustazione della tradizione:

Carne cruda di Fassona

Vitello tonnato

Plin della tradizione al tovagliolo

Guancia di vitello al Barolo

Bonet

Con percorso vini incluso: 48 €

I calici del percorso vini erano ovviamente della casa, che per un bistrot emanazione di una cantina è quel che va fatto, e la cosa è andata benissimo, “naturalmente” con scelte indovinate.

Durante il pranzo siamo stati seguiti con cortesia e cura ma senza appesantimenti. E’ stato piacevole scambiare qualche parola in più col titolare sui vini, sul turismo e l’attualità del territorio. Anche qui si è vissuta la conferma che una parte importante di valore vero del viaggio è interagire con persone e professionisti, sentire come vivono, sentire qui relazioni col cliente (e magari anche tra loro, non siamo in grado d dirlo) vissute in un modo che qualcuno meno a nord potrebbe trovare freddino, ma che a noi è parso semplicemente il frutto di storie anche molto lunghe differenti, così come in tutta Italia si sperimentano differenze su tanti aspetti dello stare al mondo con gli altri.

I piatti: davvero buonissimi, tutti, e direi il miglior vitello tonnato tra tutti quelli assaggiati (non pochissimi e tutti perlomeno buoni) in cinque giorni. Il rapporto qualità/prezzo, sempre a confronto con quel che abbiamo provato lungo il periodo in zona, è alto, tenuto anche conto che qui qualità significa anche un ambiente studiato, cercato in parecchi particolari. Chiaramente alla carta si spende di più, ma scegliendo i menu degustazione si spende benissimo rispetto alla soddisfazione con cui si sta e con cui si va via ripensando all’esperienza.

Datece retta, sicuramente.

Trovate Fosco Bistrot qui.

Poderi Colla

Andar per cantine è diventato nel tempo un modo come altri (ma anche un modo diverso da altri) per organizzare una vacanza, o magari un weekend. Per certi versi funziona come altri interessi: ad esempio il tour di chiese e monumenti puoi farlo da esperto, perché ti scegli i luoghi in cui approfondire un quadro, un mosaico, una scuola pittorica di cui già ti intendi assai; puoi farlo però anche da principiante, curioso intanto delle principali bellezze da vedere, o da appassionato che magari qualcosa ne sa e allora va a pescare apposta la pieve appartata fuori dal circuito classico.

Ecco: col vino la cosa non è molto differente.

Percorrere le Langhe in macchina o moto significa comprendere entro i primi 3 km che le cantine da visitare non vanno cercate con pazienza in qualche anfratto, ma solo scelte. C’è una tale densità di produttori che davvero senza saperne granché viene abbastanza voglia di andare a caso (si intenda qui l’uso di “a caso” per indicare la quantità; sia chiaro che lo scrivente è pesantone a sufficienza da rifiutare con adegno tali esecrabili condotte!).

Qualche nome lo avevamo già, preparati al viaggio con la lista in tasca: poi la lievità con cui un viaggio riesce probabilmente più felice ha sparigliato le carte, ma un nome è rimasto, suggerito da chi, per altro mestiere, ha a che fare con la natura di quella cantina e di molti altri luoghi che interagiscono con l’ecosistema circostante.

Poderi Colla è una casa vinicola con una bella storia che, se ci andrete, sarà bello ascoltare li.

Arrivarci è stato una parte della suggestione anche emotiva legata alla visita; per questioni di tappe già fatte ci siamo trovati a raggiungere la cantina passando per ciò che il navigatore reputava essere semplicemente la strada più veloce, ma che poi si è rivelato, parlandone all’arrivo in cantina, come il famigerato “orrido di Canta”: dalla strada principale si imbocca un vialetto ripido e dall’apparenza subito insidioso, ma anche ingannevole nelle fattezze, così normalmente asfaltato da farti dire che beh, c’è questo inizio un po’ così ma poi vedrECCO, NO. La strada si mantiene stretta scendendo giù giù con la sfrontatezza di chi non guarda in faccia nessuno, un tornante dietro l’altro in assenza di qualunque protezione laterale verso il suggestivo, poetico, langarolo STRAPIOMBO LETALE, con te a chiederti a che servano tutte quelle marce sul cambio e pregare il dio delle vigne che non venga su nel frattempo non dico un furgoncino, che eventualmente certificherebbe ivi le esatte coordinate geografiche dell’Armageddon, ma anche solo una Panda, una Vespa, una bici, una lucertola cicciottella da proteggere, un filo d’erba cresciuto in diagonale.

Sei lì a dirti quanto sia bella la vista per distrarti da tutto ciò quando… sì, anche questa esperienza, come tutte, termina; ti ritrovi sulla normalissima stradina che fanno le persone assennate, ne percorri una piccola parte, giri su un ponticello e ti arrampichi su uno sterrato che pure sarebbe con curve proiettate sul vuoto, ma per te che hai appena fatto l’orrido di Canta sembra la variante di valico alle 14.30 di mercoledì 7 ottobre, perciò sali con l’incoscienza dei tuoi vent’anni a dispetto degli ulteriori sette che hai sul groppone da qualche minuto avendoli persi, ai margini del tuo esistere, lungo l’orrido di Canta.

Ah, già. La cantina.

Per voi sarà un’esperienza ancora più bella, perché il giro in vigna noi abbiamo dovuto evitarlo per il caldo clamoroso. Ci siamo perciò seduti subito ad un lungo bellissimo tavolo che ci ha salvato immediatamente il pomeriggio poiché si trova tra due portoncini che erano entrambi aperti, a costituire l’unico esempio di ventilazione naturale del giorno nel raggio di decine di chilometri.

Gli assaggi e in generale il tipo di degustazione vengono decisi assieme a Federica Colla, la figlia di Beppe, vignaiolo e persona che nella storia dei vini di Langa ha fatto veramente molto. Lo spirito positivo, sorridente e determinato di Federica nel suo raccontare territorio e vini accompagna i sorsi meglio di qualunque abbonamento gastronomico ed è, per chi avrà voglia di stare anche al gioco, un punto di vista in più con cui guardare, annusare, assaggiare il bicchiere. Sì sta con lei, le sue parole, i suoi ottimi vini e solo natura intorno, col resto del mondo che in quell’incontro resta materialmente altrove, irraggiungibile anche dal telefono sebbene a pochi minuti da lì.

Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo, diceva il poeta, ma pure comprare qualche bottiglia scelta tra quelle assaggiate non è per niente male (notevole anche il riesling, tra l’altro). Prezzi giusti e, andando via, la sensazione chiara di portarsi a casa vini puliti, fatti da chi ama la terra e sa chiederle frutti con garbo e rispetto.

E si torna sulla via di quelli con la testa a posto, mica sull’orrido di Canta.

Datece retta!

Enoteca regionale del Piemonte, Acqui Terme (Alessandria)

(ultima visita: agosto 2022)

Per qualcuno non esistono nemmeno, o sono al più una vetrina oltrepassata mentre si è in cerca d’altro, ma capita anche che siano luoghi di acquisto per souvenir graditi assai. Il ruolo istituzionale di promozione e valorizzazione del territorio per la produzione vinicola sarebbe invece la ragione principale per cui le enoteche regionali esistono. A qualche decina di km da qui (o d’Acqui, e giù risate) ne abbiamo visitata un’altra che, diciamo così, ai nostri occhi ha un po’ messo da parte la missione dedicandosi invece semplicemente a titillare i copiosi e corposi portafogli stranieri di passaggio, attività che non ha nulla di illegale ma che in un’enoteca regionale dovrebbe essere la piacevole conseguenza di una spiegazione, di un racconto da portare a chi entra, in generale, senza preventiva verifica empirica del saldo sulla carta di credito.

Vabbè, procediamo. Il blog mica si chiama Evitatelicomelapeste.

brachetto d'Acqui tappo raso, cantina convento cappuccini

Acqui Terme è una cittadina graziosa e curata, di gente che sorride e ti parla con garbo e attenzione. Non succede ovunque e perciò qui si sta bene, o perlomeno la nostra giornata è stata piacevolissima. In pieno centro, tra negozi e persone libere di camminare senza auto, con un minimo di ricerca e due accessi da vie diverse, qualche gradino a scendere porta in un bellissimo posto per chi ami bere bene, con stanze a susseguirsi sotto soffitti a volta, tavoli in legno scuro per le degustazioni, scaffali e luci calde. A far contenti altri turisti (che, ripetiamo, in sé non è affatto un male, anzi) c’è un apparente giovincello che invece, lo scopriremo poco dopo, sempre giovane è ma ha dalla sua parecchia esperienza; li saluta, ci scambia due battute finali sorridendo e nel frattempo ci dà la sua disponibilità, col tono cortese ma attento di chi nel frattempo una prima radiografia all’avventore la fa, per comprendere un po’ chi abbia davanti. Spieghiamo quel che cerchiamo; si avvicina alle varie bottiglie aperte in giornata per altre degustazioni e pensa. Lo fa dedicando diversi secondi ad ogni singola bottiglia da includere o escludere, e apre un paio di nuove bottiglie dei vini scelti quando sente che quelle aperte non lo convincono del tutto.

vino Piemonte albarossa, cantina Franco Ivaldi

Da qui parte un’oretta buona e pure bella di chiacchiere, storia dell’enologia, Piemonte, passione, tecnica, metodologie e quant’altro, con il nostro Alessio Lo Sardo (sì, per quell’oretta tutto nostro. Grazie!) a mettere assieme competenza e capacità comunicativa come poche volte mi è accaduto di vedere nel mondo del vino.

vino slarina avamposti, tenuta il cascinone

Gli acquisti specifici, per quel che vale, sono stati una slarina della Tenuta il Cascinone, un’albarossa di Franco Ivaldi e un brachetto tappo raso della cantina Convento Cappuccini. Quel che invece conta tanto è l’occasione, davvero imperdibile se siete in zona, per attraversare territori, cantine, storie di produttori e prodotti come non riuscireste certamente a fare anche con lunghi giri d’auto molto ben progettati in anticipo e conoscendo ogni singola realtà. In un solo luogo potrete farvi un’idea davvero ricca, articolata e documentata su quel che cercate tra Langhe, Monferrato e tutto il Piemonte… ma anche su quel che non sapevate di cercare, perché qui si può realizzare concretamente una delle esperienze per cui ha valore viaggiare: imparare da zero cose di cui non sai un cavolo, eventualmente con la voglia di dimenticare quel poco che ne sai.

Li trovate qui!

Pizzeria Resilienza, Salerno

(ultima visita Luglio 2022)

Ne convengo, il nome è diventato nel frattempo un abusato passepartout dell’oratore al cartoccio, piatto sempre pronto della prosopopea, ma la pizzeria è nata nel 2013, perciò siate resilienti e procediamo.

Il prologo (una raggiungibilità non istantanea: l’indirizzo c’è, ma bisogna girare attorno a un palazzo, scendere scale, cose così), in un certo modo prepara al posto. Si arriva in una sorta di piazzetta pedonale piacevolissima, al riparo da viali, auto e rumori. Immagino che fuori si possa star bene per buona parte dell’anno.

Carta di vini e birre divertente, con tanta Campania e sostanzialmente nessuna banalità, escludendo un prosecco messo lì perché secondo me qualcuno da accontentare solo così capita sempre. Insomma, anche sul bere si cerca di occupare una posizione definita e non di massa.

Le pizze sono state:

PROFUMI DI COSTIERA

PROVOLA AFFUMICATA A FIENO,

ALACCIA DI LAMPEDUSA,

LIMONE DELLA COSTIERA AMALFITANA IGP,

PEPE

7,50 €

BACCALA’ E CRUSCO

FIOR DI LATTE,

BACCALA’,

PEPERONE CRUSCO,

OLIO EVO

10,00 €

pizza con farine integrali, provola affumicata, limone della costiera amalfitana IGP, pepe

Che bontà.

Trovate qui la loro storia, la filosofia e gli altri dettagli, ma tra foto, nome e qualcos’altro vi è già chiaro che parliamo di un livello di offerta alto, intenzionalmente e forse anche radicalmente alto.

Il punto un po’ buffo è che capireste la qualità intrinseca di questa pizzeria da questo articolo meglio che da un semplice pranzo al volo senza interazioni con titolare e staff, perché il menu -con una modestia che definire inusitata è ormai inusitato ma c’ha pure senso- non specifica scoperte che fai solo quando, colpito da un’evidente qualità di impasto e sapori, fai qualche domanda al titolare. E’ in quel momento che lui, contento della curiosità, tira fuori la “ciccia” del locale, il motivo per cui hai già deciso di tornarci decine di volte: mix ovviamente studiato di farine integrali, sale di Trapani selezionato, attenzione e cura per ogni ingrediente… Insomma, fino a quel momento una gioia per papille e pupille, poi l’esperienza di conoscerne ragioni e radici dalle parole di uno che, convintamente, resilientemente, ci crede.

pizza con farine integrali, fiordilatte, peperone crusco, baccalò, olio EVO

E’ un modo di porsi, quello di stare un passo indietro e scoprire le carte solo ai curiosi, che visto da un romano fa un effetto molto positivo ma inizialmente straniante, perché quel romano viene da una città in cui troppo spesso il mondo del “mangia e bevi” ti porta lo storytelling come antipasto, e fin qui andrebbe anche bene, ma talvolta ne fa un vanto che diventa quasi un prescindere dal risultato finale, e questo va meno bene. Qui c’è misura e sobrietà, una direzione più ostinata e contraria che resiliente, come a dire che intanto va portata in tavola una cosa buona e poi se vuoi se ne parla pure.

Not for beginners, come approccio.

Tutto perfetto? A gusti, come quasi sempre! Si potrebbe dire che il crusco forse avrebbe voluto un baccalà con una punta di salatura in più per non schiacciarlo in personalità; si potrebbe pure aggiungere che il limone letteralmente a fettine sulla pizza sa essere divisivo, ma appunto stiamo miniaturizzando i commenti su questioni che diventa bello condividere a tavola mentre di queste pizze ne mangi e rimangi.

Senza mancar di dire che il limone a fette sulla pizza a me è piaciuto moltissimo.

Diciamo che fossi in voi non me la perderei, approfittando così per visitare una città che continua ad essere molto bella e curata.

Dàtece retta!

Li trovate qui.

Tratturì – Transumanza Gastronomica, Avellino

(ultima visita: luglio 2022)

Per chi si diverta a considerare la cena fuori un’esperienza, intesa perlomeno come vivere qualcosa che non puoi riprodurre uguale uguale a casa, ci sono ristoranti che valgono la visita a prescindere. A prescindere dalle righe che leggerai nel menu, dai nomi presente tra i vini, dal tavolo che potresti trovare più o meno sistemato come lo volevi.

Tratturì – Transumanza Gastronomica” è uno di questi posti qui.

Avellino, mi si dice in zona, è città che al suo interno non offre molto per chi voglia andare un po’ al di sopra del togliersi la fame; magari per una buonissima pizza o piatti di tradizione ben fatti c’è questo, quello e quell’altro, ma sono pochi i casi in cui si provi con un’offerta di tipo diverso. Gerardo Urciuoli invece ci prova. Ha fatto esperienza presso un noto ristorante di alto livello della provincia e qui ha deciso di portare altro, puntando fin dal nome sul territorio e sulla materia, prima.

i funghi

Proprio dal nome del ristorante ha senso partire per capire come si stia a mangiare qui: se volete si può pure scrivere la parola gourmet, anche se con Transumanza c’entra pochino; mi basta che ci intendiamo però sull’approccio, che è ricerca, terra, stagione, offerta del mercato, tutto quanto messo in primissimo piano ed a servizio di ciò che viene dopo, e che non è secondario ma sicuramente funzionale alle premesse.

la guancia

Le due sale contigue sono molto accoglienti e sanno di coerenza con la cucina, che noi abbiamo gustato nel giardino posto accanto all’ingresso. Servizio attento, ampia carta dei vini con ricarichi su cui, come in quasi tutti i ristoranti, per i prezzi più bassi ci sarebbe qualcosa da dire ben più che per i livelli alti (ma è un discorso palloso e qui lo saltiamo), tavoli comodi come le sedute… insomma, formalmente funziona proprio tutto e quindi non lo minimizziamo, ma la parte protagonista riguarda a mio avviso proprio l’esperienza umana, le chiacchiere con chef e sommelier, l’atmosfera che non ha nulla di costruito, l’informale non come mossa di marketing ma perché proprio ha senso rispetto alla proposta.

Le recensioni serie prevedono prima o poi un punto in cui il grande critico si ingarella a trovare l’imperfezione, la portata fatta malino, il picogrammo di sale in più o in meno.

Fingendo d’esser altrettanto serio ma senza ingarellarsi, lo scrivente non vuol affermare che l’imperfezione in questa cena non sia esistita, ma chiarire un punto, peculiare. L’imperfezione, in un luogo come questo, è parte del patto che si fa con lo chef, a cui per esempio nella serata specifica io ho chiesto di portare quel che decideva lui. Volevo conoscere la sua cucina, non mettere i miei gusti al primo posto. Lui si è sentito di provare anche cose non in menù, che avevano senso quel giorno con la disponibilità in cucina, e me l’ha detto. Ha fatto piatti da menù e piccoli esperimenti, ovviamente non casuali ma nemmeno serializzati da un passato che non avevano. Andava bene così, era quel che ci eravamo detti, è venuto a chiedermi, a parlare, a confrontarsi con me che tra l’altro, come dire, nel mondo della ristorazione non rappresento altro che un qualunque cliente.

Questo modo di intendere la ristorazione e la professione mi è piaciuto moltissimo.

le rape

Complicato usare il conto per raccontare quanto si spenda, perché sono andato sostanzialmente fuori menù per quasi tutta la serata. Posso dire che il rapporto qualità prezzo è, volendo sintetizzare, abbastanza commovente.

l'anguilla coi friggitelli

Mi è chiaro, amici ascoltatori extrairpini: non passerete per Avellino esattamente ogni mercoledì alle 20, ok. Io però per una cena così farei pure discrete deviazioni lungo un viaggio, ecco.

Ah, giusto: li trovate qui