Vendemmiata romana 2023, Roma – la vigna del Gianicolo e altre unicità

In un gradevole sabato pomeriggio settembrino i vostri eroi del bello e del buono han partecipato ad un evento che può definirsi unico senza la preocupazione di spararla grossa.

Intro – L’orto botanico, Roma, il vigneto Italia

La premessa per contestualizzare l’evento è una parte rilevante dell’evento stesso e porta con sé parecchie cose su cui riflettere.

Il vigneto Italia è un’idea di Luca Maroni, personalità tra le più note nel mondo del vino italiano (a lui si devono le guide “Annuario dei migliori vini italiani“, per esempio, ma anche molte attività che spaziano dalla filosofia produttiva all’analisi sensoriale fino alla divulgazione per diverse tipologie di pubblico).
Con la collaborazione dell’Università La Sapienza di Roma, nel 2018 un angolo in disuso del fantastico Orto botanico di Roma, meta sulla cui sottovalutazione andrebbe scritto un libro, è stato scelto per far nascere un unicum in termini di biodiversità: 155 varietà di uve a racchiudere tutta l’Italia in poche centinaia di metri quadri, racchiusi a loro volta tra un tratto di mura aureliane e Trastevere.

Parentesi: Con le vigne circondate da muretti a secco i francesi han tirato fuori la suggestione dei Clos. Andrebbe capito cos’altro serva -oltre ad esistere- all’Italia, o anche solo a Roma, per promuovere qualità e valore quando ad esempio si ha uno straordinario vigneto in centro con “muretti” (aureliani) un filino più vecchiotti. Chiusa parentesi.

Insomma, qualcosa di unico si dice che lo abbiamo spesso a portata di mano senza farci troppo caso; che questo a Roma sia dimostrabile in vario modo è ulteriormente chiarito dal vigneto Italia.

Le viti sono gestite secondo scelte che guardano alla biodinamica; non sappiamo a quali livelli arrivino le pratiche in vigna e probabilmente non si è al cospetto di estremismo da “naturali”, ma insomma siamo oltre il biologico. Direi che qui va bene così, un po’ perché di fatto si tratta di una sorta di museo vivo più che di vigneto appositamente destinato a produrre bottiglie da vendere, un po’ perché tutto intorno non è che si stia proprio a contatto con la più pura delle arie e quindi non complicare ulteriormente le cose mi pare una bella scelta. Naturalmente, negli anni difficili, difficile con questa impostazione è anche far vino, tant’è vero che quest’anno la peronospora qui ha di fatto annullato la produzione. Lo scorso anno invece con l’uva prodotta si è arrivati a 600 bottiglie da mezzo litro, 300 di rosso e 300 di bianco.

Il vino

Eccoci qui, assaggiatori di questo bianco e questo rosso. Diciamo che già al racconto introduttivo capiamo di dover avvicinarci alla degustazione resettando un tot di film mentali che consuetamente partono assaggiando: qui parlare di monovitigno, blend, uvaggi, percentuali, territorio è mancare del tutto il focus, che sta altrove fin dalle fondamenta: 79 vitigni per il bianco, 76 per il rosso, in entrambi i casi includendo tutte le regioni italiane. Per quanto mi riguarda mai bevuto nulla di simile quantomeno per composizione.

Com’è andata?

Fossi stato coinvolto in un indovinello senza conoscere alcunché del vino, per il bianco avrei intuito un sauvignon con un accenno di malvasia, per il rosso una sorta di incontro tra aglianico e barbera con un legno non invasivo ma presente a tenere assieme il tutto. Entrambi con quell’aria un po’ ruffiana che danno intenzionalmente i vini prodotti per restituire piacevolezza ed equilibrio formale, magari a fronte di qualche perdita di personalità. Per quanto mi riguarda, quindi, due vini assolutamente gradevoli, certamente corretti, a cui (qui avrei indovinato ma non avrei mai immaginato il motivo, cioè più di settanta uve in un sorso) manca un po’ la caratterizzazione, la peculiarità che ti fa ricordare una bevuta rispetto ad altre.

Intorno al vino – dal calice al futuro

Un evento del genere, per il pomeriggio in sé e per il progetto di anni che gli sta attorno, rende chiaramente il mio assaggio ancor più irrilevante del solito. I temi, infatti, qui sono davvero tanti e si presentano tutti assieme in un attimo.

Guardiamo anche solo il prodotto finale: si sta dimostrando che, nel centro quasi esatto di una tra le metropoli più rilevanti al mondo, si può fare un ottimo vino, condurre una vigna, farlo con metodi sostenibili.

Da lì però si parte e non si sa dove si possa arrivare.

Roma ha un suo vino.
Naturalmente parliamo di un esperimento, di un vino-evento, di un’installazione vivente, perciò il fulcro non lo terrei sul chilometro zero, perché qualche considerazione d’altro tipo viene da sé senza sforzi e non riguarda solo queste due bottiglie stra-ordinarie.
Una città che ospiti una degustazione del genere, tra musiche romanesche e venticello, tra agronomi che raccontano il lavoro e passeggiate, tra la ricerca scientifica e una clamorosa galleria d’arte antica affacciata su quella ricerca, è una colossale matrioska di meraviglie consecutive, una valigia dell’attore con mille maschere, un caleidoscopio di cultura, arte, divertimento e curiosità senza pari.

Da troppo vicino certe cose non si vedono bene, si sa. Allora guardiamo dall’alto: un chilometro quadrato -nel centro dei desideri di ogni viaggiatore- contenente un fiume, un colle verdeggiante, la movida, una cucina da godere, piante da tutti i continenti, secoli di pittura eccezionale, una villa che toglie il fiato, una monumentale fontana con un panorama che incanta, chiese e chiostri imperdibili… e ora due vini.

Non esiste nulla di simile al mondo; c’è da far impazzire chiunque cerchi altro da sé.

Qui c’è un futuro da inventare, a vederla in positivo, perché altrimenti, con occhio un po’ critico, proprio all’ingresso di questo miracolo di giardino che ospitava il miracolo dell’evento, turisti ben informati su Roma e su quel che avrebbero voluto vedere in città erano lì a chiedersi se valesse la pena entrare, cosa ci fosse poi di così particolare in un luogo che, sul piano della comunicazione turistica ma anche al cospetto dei suoi concittadini, non sa presentarsi a dovere -e figuriamoci se sappia presentare l’evento, ben organizzato da Senseventi di Francesca Romana Maroni in una due giorni arricchita di banchi d’assaggio, artigianato di qualità, visite guidate e appuntamenti nel parco-.

Il punto, insomma, non mi pare di nicchia né ozioso, né da vincolare all’evento in sé, che però del punto è un rappresentante perfetto. Per chi l’ha visto e per chi non c’era, diceva il poeta.

Per chi l’ha visto

Qui all’orto botanico, in questo pomeriggio è arrivato, entrando senza indugi, chi segue il mondo del vino, chi per caso aveva programmato proprio per quel giorno un bel momento coi figli da far camminare nel verde, chi conosce ed ama quel posto a cui dedica un saluto periodico. Quel che è accaduto, però, per chi l’ha cercato e per chi se lo è fortunosamente trovato, è una sorta di piccola grande celebrazione laica della storia e del futuro di una città che, nelle solitissime mille contraddizioni di cui ama dotarsi da sempre, sembra poter nutrire di bellezza infinite generazioni umane.

Per chi non c’era

Chi non è entrato, con tutta probabilità perché non ne sapeva nulla, ha perso qualcosa di assolutamente unico che, per esser goduto, richiedeva dieci euro, quelli che la metà dei passanti ha speso qualche decina di metri dopo per bere con esiti un po’ diversi per gusto e olfatto.
Nulla in (de)merito si può attribuire a un’organizzazione che anzi, lo ribadiamo, ha promosso l’evento con professionalità ed efficacemente; il tema è istituzionale e in molti sensi politico, e riguarda la direzione che si vuol dare al futuro: a quello del turismo urbano, a quello dei cittadini, a quello della città e… al futuro in sé.

Evento splendido. Complimenti a Luca Maroni, narratore non banale e capace di ottenere ascolto da una platea certamente eterogenea, e all’organizzazione.

Proloco Trastevere, Roma – A spasso nel territorio, con amore

Trastevere, luogo bellissimo di Roma e dell’anima che però, a più di qualche romano, fa scappare istantameamente qualche parolina subito dopo l’anima suddetta. Per gli anzianotti diciamo croce e delizia e usciamone così, con delicatezza. In questa continua passeggiata tra piccole e grandi meraviglie tra fiume e Gianicolo si può dire che togliersi la fame in qualche modo e in qualunque ora è semplicissimo. Un po’ più di cura è invece richiesta volendo anche un’esperienza di qualità; ancor di più -ma questa è proprio la vita, mi sa- c’è da cercare se si vogliono anche incontrare persone belle, con cui diventa bello incontrarsi la volta successiva con la scusa di tornare.

Elisabetta Guagliarone è la padrona di casa; dalla cucina esce quando può e ti racconta quel che fa, con la passione di chi tiene al cosa e al come. Il suo compagno Vincenzo Mancino è da tempo un ambasciatore culinario del Lazio per la sua selezione attenta di prodotti e produttori regionali meritevoli del suo “marchio” DOL (Di Origine Laziale), realtà gastronomica nata a Centocelle e, per farvi una prima idea, visitabile qui. Le materie prime, insomma, sono anch’esse questione di casa, gestite con la consapevolezza e la determinazione di voler arrivare fino al piatto lungo un percorso di cui si conoscono partenza e tappe.

Il menu è divertente, è diretto, non si preoccupa di distinguere tra innovazione e tradizione, né di starci in mezzo o di appartenere a uno dei due estremi. E’ semplicemente il risultato del modo in cui si ragiona a monte: gli ingredienti vengono rispettati perché hanno singolarmente da dire qualcosa, sicché a tavola arriva esattamente la logica conseguenza, arricchita da un colore che solo le passioni sanno dare e che qui è amore per il lavoro che si fa.

Forse il modo migliore per conoscere Elisabetta e la sua cucina è il pranzo contadino, in cui gli antipasti di quella domenica diventano i compagni di tavola arrivando tutti assieme, presentati e spiegati.

La caccia all’aggettivo, quando vuoi scrivere di viaggi così belli tra i sapori, è tra gli sport estremi coi risultati più pericolosamente ridicoli. Evitando perciò di intrattenerci in tale pratica, l’invito che vi facciamo è di prendere una mattina e la curiosità, lasciarvi portare da loro verso Trastevere (e verso Roma per chi chiama da fuori Roma), guardare in su e in giro mentre camminerete, stancarvi un po’ perché magari salirete pure sul colle a guardare la città dall’alto, entrare in questo posto accogliente e godervi un’esperienza che lascia un po’ di sazietà e un po’ di fame in arrivo per la volta successiva che vorrete.

Bravissima, Elisabetta. Si sta bene, da te.

Trovare Proloco qui

Scoprire San Francesco a Ripa

Il bello è più bello se non te lo aspetti.

Non abito lontano da lì e – voglio dire – girare per Roma giriamo, eppure non l’avevo mai notata. A mia discolpa, Vostro Onore, preciso che la chiesa in questione è un po’ defilata; d’altra parte chi conosce i francescani sa che non amano dare troppo nell’occhio, operano con umiltà, senza ostentare.

Tant’è, è stato inoltrandoci nella zona ad est di Viale Trastevere, più o meno all’altezza del Ministero dell’Istruzione, che ho scoperto l’esistenza della chiesa di San Francesco a Ripa.

Anche una volta che ce l’hai davanti pensi ad una chiesa modesta che, con tutte le ricchezze di cui le chiese di Roma traboccano, è tra quelle che possono essere saltate. La facciata, di un barocco inaspettatamente lineare ed essenziale, conferma questa prima impressione.

Eppure Pier sapeva – non chiedetemi perché – che mi sarebbe piaciuta.

L’abbiamo visitata ben prima che nascesse il nostro amato blog, sicché vi parlo più di sensazioni che di ricordi precisi e ben fissati nella mente. Tuttavia, siccome noi qui vogliamo condividere con voi il bello e il buono che sperimentiamo, perché magari vi venga voglia di sperimentarlo a vostra volta, questo posto non posso non citarlo.

Subito ad accoglierci, nella prima cappella a sinistra, una non molto nota (credo) “Nascita della Vergine” di Simon Vouet, caravaggista che di Caravaggio conserva qui la forza dei contrasti, la semplicità delle figure e la quotidianità della scena (il rimando al Maestro è anche nella presenza della figura di spalle, che c’ha da fa’, mica può preoccuparsi delle buone maniere).

Tuttavia Vouet ha il coraggio di non scimmiottare Caravaggio e opta per un ingentilimento dei movimenti, degli sguardi e della composizione, la cui circolarità, data dalla disposizione delle figure (tutte protettivamente curve verso Sant’Anna) e dalla direzione dei gesti, dà una poco caravaggesca “morbidezza” all’insieme.

Proseguendo lungo la navata sinistra, nascosto in una stretta e nascosta cappella, del tutto inatteso incontrate il gioiello della chiesa: l’“Estasi della Beata Ludovica Albertoni” del Bernini.

Evidente il rimando all’Estasi di Santa Teresa D’Avila, sempre di Bernini, ma di un Bernini di più di 25 anni più giovane e collocata nella ben più centrale chiesa di Santa Maria della Vittoria.

Lo scenario in cui è “esposta” Santa Teresa è molto più ampio e sontuoso, nonché teatrale, coi committenti scolpiti in logge laterali a commentare si direbbe con gusto e fare quasi voyeuristico.

La Beata Ludovica Albertoni è invece posta in uno spazio molto più “angusto” e privato, decisamente distante dall’osservatore; tuttavia, con un gioco prospettico delle pareti, che dall’ingresso della cappella fino alla scultura vanno a stringersi, Bernini fa sì che lo sguardo sia catalizzato dalla scultura come se fosse a due passi da noi.

Le gambe piegate, o meglio raccolte in modo scomposto e attraversate dal meraviglioso drappeggio della veste, la posizione delle mani, lo sguardo, gli occhi semichiusi, la bocca leggermente aperta difficilmente ci farebbero pensare al momento del trapasso, se non ci fossero i cherubini sospesi su di lei ad attenderla.

Con gli occhi e il cuore già grati di tanta bellezza, per puro caso abbiamo visto un cancelletto – purtroppo chiuso – che immetteva in una stanza spoglia, caratterizzata da pareti con nicchie vuote, geometrie austere a creare uno spazio metafisico, in cui è il vuoto a parlare. Non ci ha stupito – e insieme ci ha meravigliato enormemente – che si trattasse della cappella che custodisce le spoglie di Giorgio De Chirico.

Insomma, perché proprio lì? E’ interessante leggere su siti molto più informati di questo il motivo della loro collocazione in una defilata chiesa trasteverina dedicata a San Francesco.

Che visita stupefacente, pazzesca, abbagliante!

Attenti, amici, vi vedo che a Trastevere ci passate (e pure spesso!) per una carbonara: mi raccomando, San Francesco a Ripa vi aspetta!