Vignaioli naturali a Roma 2025: dove va il vino (e con chi)

Dove siamo stati
(spoiler: a bere)

Roma è faticosa, si dice non a torto, ma offre mille occasioni quotidiane per chi sia curioso di bellezza, cultura, divertimento.
Il vino cos’è, se non perlomeno tutte e tre le cose?

Succede poi che, proprio a Roma, tra le moltissime rassegne dedicate al vino ce ne sia una, ormai divenuta di rilevanza anche storica, Vignaioli Naturali a Roma, partita nel 2008 quando abbinare la parola “naturale” al vino non era ancora nemmeno l’inizio di una moda per certi versi ormai tramontata.
Stiamo parlando, insomma, di una manifestazione solida e costruita su un’idea di vino e di mercato che prescinde dall’hype che il fenomeno ha vissuto già.

Ok, ma cos’è il vino naturale?
(spoiler: di preciso non si sa, ma…)

Cosa cavolo significhi vino naturale è questione che non intendiamo affrontare qui, per via del fatto che fuori da questo blog abbiamo anche una vita; passare un mese a scrivere di semantiche improbabili e non disciplinate sarebbe un esercizio di stile un filino dispendioso rispetto all’utilità che ne avreste in cambio.

Facciamola allora più semplice, anche se ovviamente superficiale:
produttori evidentemente non giganteschi e non industriali scelgono di fare vino minimizzando i trattamenti in vigna, per intensità e tipi di sostanze, nonché muovendosi in totale coerenza con la vigna da quando l’uva arriva in cantina a quando diventa un vino pronto per la vendita. Filosofie, approcci e linee di azione (relative anche all’etica, al lavoro, all’ecologia in senso più ampio) assumono a questo punto tratti più o meno marcati e radicali, ma la sintesi è, in sostanza, un processo agricolo e produttivo il più vicino possibile al rispetto di quel che la natura ha fornito.

Che succede in conseguenza?
Dal punto di vista delle capacità a produrre, fare vino cosiddetto naturale (lo scrivente preferisce dire artigianale) richiede competenza, bravura e attenzione come (o più) che fare vino “convenzionale”, perché il risultato a produrre in questo modo è un vino che i sognatori amano chiamare “libero”, ma che -detta più asettica- ha subìto meno correzioni di rotta in corsa.
Succede quindi che, se il lavoro di viticoltore lo fai in modo approssimativo, il vino sarà pure naturale (e già si potrebbe poi non esser d’accordo sul termine, per motivi talvolta misurabili), ma si collocherà tra l’inutile, l’imbevibile e -nei casi peggiori- il dannoso.
Se invece sei bravo, quel vino diventa a suo modo unico, diventa una storia a sé che, per forza di cose, i convenzionali non potranno essere, e che altri artigianali non vorranno essere.

Insomma, qui non si demonizza il vino convenzionale né si santifica quello artigianale, anche perché un vino convenzionale può esser buonissimo e fatto benissimo e il problema del vino per la salute resta largamente l’alcool. Semplicemente, qui ci si diverte molto di più a bere artigianale, perché il vino racconta al naso, in bocca, negli occhi storie più personali, meno codificate.

Più umano, più vero, direbbe il poeta.

Cosa abbiamo assaggiato
(spoiler: cose buone, in più casi molto buone)

L’elenco dei produttori comprendeva più di cento nomi, sicché disgraziatamente proprio tutto tutto non s’è potuto provare.
Ci si è però trovati assai bene sorseggiando i diversi prodotti che ciascuna di queste cantine qui elencate ha portato:

Nel nostro giro, insomma, son state visitate Umbria, Marche, Abruzzo, Lazio, Emilia, Puglia, Piemonte e… Catalogna, appena più lontano.

Molti i rifermentati/ancestrali/pet nat e via dicendo, con produzioni la cui qualità è garantita dal nome Tiziana Gallo, la donna che ha creato la rassegna e portato avanti sempre il tema della qualità a prescindere dal fatto che il naturale fosse fashion. Anche i bianchi macerati hanno avuto largo spazio, com’è normale in questo contesto, e -attenzione attenzione- abbiamo bevuto perfino qualche affinato in barrique di primo passaggio, cosa che invece col contesto ha a che fare ben poco.

Insomma, non che andasse per forza detto, ma bere artigianale dà tanta tanta soddisfazione e gusto, essendo ormai anche piuttosto chiaro e consolidato nel settore che un vino sgradevole ma naturale è sgradevole senza ma; c’è voluto qualche anno, ma il livello medio si è alzato e le discontinuità si sono fortemente ridotte.

Questo specifico evento, peraltro, come abbiamo già detto è da sempre tra quelli che garantiscono un livello qualitativo rassicurante, ma ci ha fatto comunque piacere aver assaggiato solo vini che, per capirci, anche chi non frequenti i naturali può bere senza avere qualche perplessità.
Non ce ne vogliano i produttori di valore: intendiamo solo dire che, in questi anni in cui la moda del naturale ha portato ad un’offerta molto variegata, è capitato di bere… diciamo un po’ di tutto, con qualche filosofo anarchico che, per ideologia o anche solo per poca competenza, ha messo in commercio bottiglie con difetti evidenti, vendute comunque al prezzo di vini che i difetti non li hanno.

Ma come va ‘sto mondo del vino?
(spoiler: dipende)

Il mercato del vino, per motivazioni che le nostre competenze esporrebbero qui in modo scadente, non se la passa benissimo.
La situazione economica (il combinato disposto stipendi bassi-prezzi che salgono) non aiuta affatto. Nel frattempo, oltertutto, quello che non chiameremo storytelling ma che insomma è il modo di proporre il vino sa di vecchio, è spuntato, vende un mondo un po’ pesantone e intellettualoide che, con l’invecchiare di quelli venuti su a degustazioni e corsi per sommelier e l’arrivo di gente più scialla, fa sembrare a questi ultimi la bottiglia di vino come il biglietto da visita di una rottura di maroni, l’ingresso in una stanza polverosa di cimeli da dover riconoscere uno a uno.

I ragazzi -e anche molti “meno ragazzi” ma comunque giovani- vogliono bere per il gusto di farlo in compagnia, ridendo tra una chat e una chiacchiera informale.
Sicuramente le pessime robacce zuccherate, una discutibile idea di mixology o le lattine di intrugli con alcool sono il male, ma che l’alternativa proposta finora sia stata l’obbligo morale di intravedere al naso prima del sorso quantomeno due frutti di bosco e un brand esatto di tabacco essiccato al sole in un quartiere di Marrakech non ha propriamente supportato il desiderio di bere un buon vino.

Sono moltissime le persone che chiedono non tanto un vino diverso, ma un modo diverso di fruirne, di usarlo. Rassegne come questa sono il trionfo (qui a livello alto, ma ce ne sono di più pop) di un modo di vivere che pure nel vino porti racconti, storie di artigiani, caratteri e personalità magari non tutte rettilinee ma -ecco il punto- attraenti, intriganti, che ti fanno avvicinare senza esigere Sapienza.

Poi per carità: qualcuno, magari, dopo l’ennesimo assaggio di questo Sabato romano, aveva la faccia e la lucidità di chi avrebbe probabilmente gradito da lì in poi pure il talco mentolato sciolto nell’orzo in tazza grande, ma perché mai il mondo del vino dovrebbe condannarsi da solo ad essere eternamente non democratico? La selezione all’ingresso per censo nozionistico è ben poco lecita e chi è felice ha ragione (se poi cortesemente magari non guida, ecco).

Insomma è andata bene?
(spoiler: sì)

Ambiente: l’hotel Excelsior di Via Veneto non abbisogna di introduzioni né descrizioni: è un luogo in cui si vanno a spendere 30 euro perché più di cento produttori in due sale molto belle ti fanno vivere un bel pomeriggio assaggiando vini di livello qualitativo medio certamente rilevante, a prescindere dai gusti personali che fanno preferire questo o quello.
Puoi parlare coi produttori e conoscere davvero le storie di una bottiglia, di un’annata, di un terreno, e puoi farlo con uno staff che ha funzionato e un’atmosfera magari anche più pomposa di quel che servirebbe ma che, dài, ti fa dire: perché non viversi qualche ora speciale?

Dateme retta…

Napoli, che non si può raccontare

(ultima visita: ottobre 2024)

Napoli, a volerne scriverci su, ti fa cominciare con la certezza di non riuscire a raccontarla.

Personalmente la ritengo la città meno descrivibile tra quelle a me note.
Tra le ragioni, centinaia, ne direi una che riguarda un concetto minimal, diciamo, ma totalizzante se si vuole descrivere qualcosa o qualcuno: Napoli è duale, contiene opposti e, tra l’altro, lo fa senza mostrare come questo possa pesarle tantissimo quotidianamente.

Duale

Napoli è lunga, con una Spaccanapoli che dall’alto impressiona pure le emozioni, ma è corta, con vicoli che all’ingresso ti sbattono in faccia già l’uscita. Orizzontale, con un lungomare e la sua vista che ti portano a guardare il mondo in sedici noni, ma verticale, quando da certi punti dei quartieri credi di poter continuare i tuoi passi per chilometri e ti trovi davanti pareti improvvise che risalgono fino a Corso Vittorio Emanuele, sospeso un metro avanti a te ma venti sopra.

Napoli è silenzio di mille chiostri repellenti al rumore, ma mille suoni appena apri una porta, anche solo per uscire da quei chiostri. Scura in passaggi infilati tra palazzi che li ingoiano, ma chiara di luci istantanee al primo angolo giusto svoltato.
Napoli è povera e ricca alla distanza di una funicolare; è nuova e vecchissima se ti affacci a guardarla dai suoi balconi più alti; è sopra e pure sotto, con fiumi di vita che scorrono lungo viali e metropolitane, e anche quelle metropolitane sanno essere duali, perché sono rettilinei lungo una città che è una sfida ingegneristica, ma proprio per quella sfida continua diventano curve in modalità uniche (guardate che diavolo fa la L1 tra Materdei e Medaglie d’oro per arrampicarsi); è naturalmente, storicamente, tecnicamente miseria e nobiltà.
Sa essere anche straordinariamente brutta, ma magnificamente bella.

Mi sa che potrei continuare per ore, ma poi il confine con le chiacchiere a vuoto magari lo supero a mia insaputa, quindi stacco qui.

Il pretesto

Che ci facevo a Napoli? Il pretesto era il Napoli Photo Festival, che… niente, ve ne parolo dopo.

Festival a parte, però, il resto è stato un susseguirsi di passi e soste a fare circa 25 km immersi nella normalità di una città che, comunque la si voglia guardare, di normale ha pochino.
Vi racconto il resto come segue, un po’ in sequenza temporale e un po’ in disordine, anche per rimanere nel mindset partenopeo.

Note per il viaggiatore: Nessun monumento, museo, chiesa o similari è stato oggetto di visita in questa tornata (queste meraviglie le abbiam viste in visite passate e ne vedremo in futuro). Ne segue che qui sotto vi saranno risparmiate descrizioni culturalmente baldanzose da uno che la cultura stavolta non l'ha masticata che di sguincio 

Disclaimer

L’idea di una guida turistica scritta su Napoli mi pare un’avventura surreale già se fatta in modo professionale; figuriamoci su un qualunque blog serio; figuriamoci su questo, che esiste per altri motivi. Proseguite quindi sereni lungo le prossime righe senza pensare di costruirci una qualunque gita sopra: qui ci son soltanto punti di interesse su una delle mappe emozionali che questi luoghi disegnano.

Venerdì

Arrivo di corsa nel tardo pomeriggio, dopo esser riuscito a prendere al volo il treno che precedeva il mio, poiché entrambi erano in ritardo di circa due ore… Ok, per le stories su questa faccenda sarebbe servito un giovine a fare i reel in stazione, ma se cercate i giovini qui mi sa che pure voi ritarderete di due ore il vostro prossimo appuntamento.
Dicevo: dalla stazione camminata veloce assai con zaino in spalla perché il luogo per dormire è nel centro del centro e per la consegna delle chiavi siamo, causa treno, oltre l’orario concordato. Ecco: passare per Forcella è sempre un’esperienza a sé, perché la zona, perlomeno vista da chi non ci vive, è sostanzialmente immutata da decenni (caso divenuto rarissimo, come vedremo dopo).

Note per il viaggiatore: Napoli è cambiata, non si lotta più per sopravvivere agli attraversamenti stradali già a partire dalla stazione: si comincia da qui dentro, quindi un po' più avanti

Il tuffo nella vita cittadina, se sei in centro storico, è come sempre: istantaneo, immediato. Da qualunque provenienza laterale, avvicinarsi a Spaccanapoli o alla sua parallela significa sentire il volume sche sale metro per metro, il vociare che si fa prossimo passo dopo passo. Sei dentro, tac, è fatta.

Overtourism

Troppo.
Nel periodo a cui questo articolo fa riferimento (ottobre 2024) Napoli soffre della malattia capitata anche a (elenco minimo) Roma, Firenze e Venezia: San Biagio dei Librai e Tribunali sono due vie in cui è complicato camminare, dall’alba a notte piena. Una vitalità gigantesca, un’esuberanza che da sempre caratterizza la città ma che qui va fuori scala. Mille pizzerie ne concretizzano in pratica una sola, lunghissima, di colorati tavoli in sequenza ininterrotta, serpentoni a perdita d’occhio di luminarie gialle, un mare di musiche sovrapposte e confuse alle chiamate ai tavoli per comande, saluti, battute e risate.

Ho fatto una verifica al volo su google maps: in trecento metri a caso di Via dei Tribunali scrivendo “ristorante” escono 18 locali.
Mi sa che un ristorante ogni 17 metri lascia perplessi anche solo restando sullo stereotipo del napoletano superstizioso. La quiete, lungo queste strade, arriva improvvisa e teatrale solo nei luoghi che abita da sempre.

Turisti contenti e felicemente arresi al tutto che li avvolge, non discuto, però qualcosa in questo modo di lasciar fare offerta turistica è andato storto; non parlo con la nostalgia di chissà cosa, ma con la sensazione che via via questo comporti perdita identitaria, qualitativa e, su un orizzonte più lontano, pure turistica, perché se nel lungo periodo ogni città somiglierà a ogni altra ci sarà sempre meno curiosità.
Entro in una cartoleria e, durante l’acquisto, parlo un po’ di questi argomenti col titolare, che lavora lì da molti anni. Mi risponde, a testimoniare che la qualità del turismo si è concretamente abbassata, con molti aneddoti recenti pure simpatici, se non fossero un segnale triste; ve ne riporto due in sintesi:

  • turista mostratasi incapace di capire che quella a pochi metri era la chiesa (grande!) che cercava e non “un palazzo” (“c’è una croce e un portone grande, signora! Ha mai visto un palazzo come quello?”)
  • turista che, a fronte del costo (indicato chiaramente) di venti euro per l’acquisto di un certo numero di cartoline, ha risposto “beh, ma a questo prezzo vado a mangiarmi un’altra pizza”

E però, però…

…Basta allontanarsi nemmeno di molto, anzi magari anche rimanere proprio in zona, per divertirsi godendosi la vita di chi questa città la abita davvero. Personalmente per la sosta pre-cena ho scelto Oak, dove tra proposte artigianali di birre e vini, un mood tranquillo e una clientela numerosa ma particolarmente in sintonia si sta davvero bene, in mezzo alle chiacchiere di tutti.

Si va a cena, e per questo weekend il programma è importante: tre giorni, tre pizzerie.
Partenza spostandosi ancora non di molto, per arrivare in quell’anfiteatro di umanità che è Piazza Dante, entrare a Port’Alba e salir le scale interne di Antichissima Pizzeria Port’Alba 1738. Quant’è buona. Pizza scelta: La storia, che di pizze tradizionali ne rappresenta quattro in spicchi.

Sabato mattina

Colazione da Capparelli, dove il cappuccino costa un tot ma la sfogliatella (frolla) è buona, seconda a-chi-tutti-sanno, ma buona. Si va a Bagnoli al Photo film festival.

Napoli Photo Festival 2024

Bella esperienza.
L’associazione culturale Flegrea Photo a Bagnoli ha messo assieme varie cose:

  • una mostra
  • un concorso
  • una mostra legata al concorso
  • letture dei portfolio di chiunque ne avesse uno da far esaminare
  • incontri tematici
  • l’utilizzo della ex base NATO che, insomma, sta lì inanimata; con essa, magari, l’idea di una possibilità nuova per Bagnoli

Di vita, invece, in questa manifestazione se n’è vista eccome, tra l’altro con un pubblico che non è stato solo quello di professionisti o appassionati di vecchia data, ma anche di ragazzi e, tra loro, perfino di quelli che -eresia per i boomer!- scattano col telefono e certi dispositivi non li hanno mai toccati; sono stati presenti anche molti curiosi, magari meno esperti, per l’interesse verso appuntamenti come quello dedicato all’AI nella fotografia.

Finalmente, in sintesi, arrivano anche le iniziative che sanno di futuro.

Sabato pomeriggio

Tornando dal festival, Piazza Amedeo è stato l’arrivo del treno da Bagnoli e l’inizio della passeggiata: Chiaia, per dirla in breve, ma anche, da lì, uno tra le migliaia di aspetti fascinosi di questa città, cioè i passaggi spesso spiazzanti tra una zona e la successiva, a una distanza che per atmosfere e caratteristiche sembra chilometri e invece è metri, talvolta meno di dieci.

Succede che sei a Via dei Mille, tra negozi griffati o griffatissimi, e poi via Chiaia a proseguire; magari non la percorri tutta perché per scoprire qualcosa giri nel primo vicolo che ti capita e… alé, sei nei quartieri spagnoli.

Anche qui il turismo è arrivato e si vede, ma non siamo ai livelli di Spaccanapoli: pizzerie, cuoppi e birre ti attraversano il cammino o ti passano accanto a dozzine, ma resta la città, la realtà, la percezione di essere lungo strade e non in una fiera dello street food. C’è sempre quel simpatico e tradizionale sentirsi al confine con la morte per il normale passaggio a trenta all’ora di motocicli a diciotto centimetri da chiunque, ma in fondo è solo questione di tenere botta a livello cardiaco nelle prime ore di visita in città; poi ci si abitua.

Cammina cammina, tra un negozio di fotografia che non aveva l’obiettivo usato che cercavo e un emporio per il cambio di solette alle scarpe (non trovavo l’articolo dove indicato dal titolare, il quale vedendomi in ambasce ha sentenziato da lontano, tra la preoccupazione dei presenti, “credo debba cambiare prima gli occhiali”), son risalito fino a Piazza Càvour (attendo studi precisi su questa accentazione, perché al momento le fonti in mio possesso sono imprecise, variegate e non certificabili).

Il motivo per cui sono arrivato lì è che finora, in tanti ritorni qui, non avevo mai visitato il rione Sanità.

Tuttavia è evidente che pure qui le cose son cambiate, ma Napoli è rimasta tutta tutta e, anzi, ha saputo risorgere in progetti turistici veri, con visite guidate programmate, prenotazioni internet dedicate e una voglia latente di cambiare le cose che si vede in più punti. L’ho percorso fin troppo, perché sostanzialmente sono arrivato quasi alla stazione Materdei della metro. Fatelo, senza emularmi fino a questo punto, e poi magari prendete l’ascensore nel bel mezzo del quartiere per… salirgli sopra e guardarlo dal viale che vi porta verso Nord a Capodimonte e verso Sud di nuovo in centro.

Pizza serale, pure questa davvero buona ma che mi ha fatto innamorare solo un filino meno rispetto alla precedente, da Trattoria Medina.

Domenica

Ecco che, nei miei giretti a perdermi apposta in vie che non conosco, mi propongo (e accetto, pure) di arrivare a vedere la nuova bellissima stazione Chiaia della metro. Scendo sottoterra a Municipio e un addetto si incammina con me verso la scala mobile… per avvisare che quella linea si è testé fermata.

Cambio programma e pure cambio metro: potete salire facilmente al Vomero da lì, sempre in metro, e godervi un’altra delle tante Napoli che Napoli sa essere. Castel Sant’Elmo a quel punto diventa un passaggio ben più che consigliabile e infatti perfino banale; meno banale è riscendere verso i quartieri esattamente da quella splendida terrazza panoramica, lungo gradini e gradoni che via via aprono squarci di verità diverse su una città che ne contiene fin troppe. Non stancatevi di scendere e guardare tutto.

Arrivati a Corso Vittorio Emanuele potete calarvi verticalmente, poco più a sud, di nuovo nei quartieri spagnoli ma nella zona nord, dove una fondazione ha creato Foqus, realtà davvero bella, importante e che profuma di rinascite. Non sto a parlarvi di cose che potete reperire facilmente: passateci.

A pranzo pizza notevole e scenario omonimo da Palazzo Petrucci.

Sfogliatelle… lì, dove vanno prese, e treno.

Si parte per casa, con la voglia di tornare e metter su un andirivieni con questo mondo a parte, in cui avrei grandi difficoltà a vivere ma che gronda vita.