Pizzeria Resilienza, Salerno

(ultima visita Luglio 2022)

Ne convengo, il nome è diventato nel frattempo un abusato passepartout dell’oratore al cartoccio, piatto sempre pronto della prosopopea, ma la pizzeria è nata nel 2013, perciò siate resilienti e procediamo.

Il prologo (una raggiungibilità non istantanea: l’indirizzo c’è, ma bisogna girare attorno a un palazzo, scendere scale, cose così), in un certo modo prepara al posto. Si arriva in una sorta di piazzetta pedonale piacevolissima, al riparo da viali, auto e rumori. Immagino che fuori si possa star bene per buona parte dell’anno.

Carta di vini e birre divertente, con tanta Campania e sostanzialmente nessuna banalità, escludendo un prosecco messo lì perché secondo me qualcuno da accontentare solo così capita sempre. Insomma, anche sul bere si cerca di occupare una posizione definita e non di massa.

Le pizze sono state:

PROFUMI DI COSTIERA

PROVOLA AFFUMICATA A FIENO,

ALACCIA DI LAMPEDUSA,

LIMONE DELLA COSTIERA AMALFITANA IGP,

PEPE

7,50 €

BACCALA’ E CRUSCO

FIOR DI LATTE,

BACCALA’,

PEPERONE CRUSCO,

OLIO EVO

10,00 €

pizza con farine integrali, provola affumicata, limone della costiera amalfitana IGP, pepe

Che bontà.

Trovate qui la loro storia, la filosofia e gli altri dettagli, ma tra foto, nome e qualcos’altro vi è già chiaro che parliamo di un livello di offerta alto, intenzionalmente e forse anche radicalmente alto.

Il punto un po’ buffo è che capireste la qualità intrinseca di questa pizzeria da questo articolo meglio che da un semplice pranzo al volo senza interazioni con titolare e staff, perché il menu -con una modestia che definire inusitata è ormai inusitato ma c’ha pure senso- non specifica scoperte che fai solo quando, colpito da un’evidente qualità di impasto e sapori, fai qualche domanda al titolare. E’ in quel momento che lui, contento della curiosità, tira fuori la “ciccia” del locale, il motivo per cui hai già deciso di tornarci decine di volte: mix ovviamente studiato di farine integrali, sale di Trapani selezionato, attenzione e cura per ogni ingrediente… Insomma, fino a quel momento una gioia per papille e pupille, poi l’esperienza di conoscerne ragioni e radici dalle parole di uno che, convintamente, resilientemente, ci crede.

pizza con farine integrali, fiordilatte, peperone crusco, baccalò, olio EVO

E’ un modo di porsi, quello di stare un passo indietro e scoprire le carte solo ai curiosi, che visto da un romano fa un effetto molto positivo ma inizialmente straniante, perché quel romano viene da una città in cui troppo spesso il mondo del “mangia e bevi” ti porta lo storytelling come antipasto, e fin qui andrebbe anche bene, ma talvolta ne fa un vanto che diventa quasi un prescindere dal risultato finale, e questo va meno bene. Qui c’è misura e sobrietà, una direzione più ostinata e contraria che resiliente, come a dire che intanto va portata in tavola una cosa buona e poi se vuoi se ne parla pure.

Not for beginners, come approccio.

Tutto perfetto? A gusti, come quasi sempre! Si potrebbe dire che il crusco forse avrebbe voluto un baccalà con una punta di salatura in più per non schiacciarlo in personalità; si potrebbe pure aggiungere che il limone letteralmente a fettine sulla pizza sa essere divisivo, ma appunto stiamo miniaturizzando i commenti su questioni che diventa bello condividere a tavola mentre di queste pizze ne mangi e rimangi.

Senza mancar di dire che il limone a fette sulla pizza a me è piaciuto moltissimo.

Diciamo che fossi in voi non me la perderei, approfittando così per visitare una città che continua ad essere molto bella e curata.

Dàtece retta!

Li trovate qui.

Tratturì – Transumanza Gastronomica, Avellino

(ultima visita: luglio 2022)

Per chi si diverta a considerare la cena fuori un’esperienza, intesa perlomeno come vivere qualcosa che non puoi riprodurre uguale uguale a casa, ci sono ristoranti che valgono la visita a prescindere. A prescindere dalle righe che leggerai nel menu, dai nomi presente tra i vini, dal tavolo che potresti trovare più o meno sistemato come lo volevi.

Tratturì – Transumanza Gastronomica” è uno di questi posti qui.

Avellino, mi si dice in zona, è città che al suo interno non offre molto per chi voglia andare un po’ al di sopra del togliersi la fame; magari per una buonissima pizza o piatti di tradizione ben fatti c’è questo, quello e quell’altro, ma sono pochi i casi in cui si provi con un’offerta di tipo diverso. Gerardo Urciuoli invece ci prova. Ha fatto esperienza presso un noto ristorante di alto livello della provincia e qui ha deciso di portare altro, puntando fin dal nome sul territorio e sulla materia, prima.

i funghi

Proprio dal nome del ristorante ha senso partire per capire come si stia a mangiare qui: se volete si può pure scrivere la parola gourmet, anche se con Transumanza c’entra pochino; mi basta che ci intendiamo però sull’approccio, che è ricerca, terra, stagione, offerta del mercato, tutto quanto messo in primissimo piano ed a servizio di ciò che viene dopo, e che non è secondario ma sicuramente funzionale alle premesse.

la guancia

Le due sale contigue sono molto accoglienti e sanno di coerenza con la cucina, che noi abbiamo gustato nel giardino posto accanto all’ingresso. Servizio attento, ampia carta dei vini con ricarichi su cui, come in quasi tutti i ristoranti, per i prezzi più bassi ci sarebbe qualcosa da dire ben più che per i livelli alti (ma è un discorso palloso e qui lo saltiamo), tavoli comodi come le sedute… insomma, formalmente funziona proprio tutto e quindi non lo minimizziamo, ma la parte protagonista riguarda a mio avviso proprio l’esperienza umana, le chiacchiere con chef e sommelier, l’atmosfera che non ha nulla di costruito, l’informale non come mossa di marketing ma perché proprio ha senso rispetto alla proposta.

Le recensioni serie prevedono prima o poi un punto in cui il grande critico si ingarella a trovare l’imperfezione, la portata fatta malino, il picogrammo di sale in più o in meno.

Fingendo d’esser altrettanto serio ma senza ingarellarsi, lo scrivente non vuol affermare che l’imperfezione in questa cena non sia esistita, ma chiarire un punto, peculiare. L’imperfezione, in un luogo come questo, è parte del patto che si fa con lo chef, a cui per esempio nella serata specifica io ho chiesto di portare quel che decideva lui. Volevo conoscere la sua cucina, non mettere i miei gusti al primo posto. Lui si è sentito di provare anche cose non in menù, che avevano senso quel giorno con la disponibilità in cucina, e me l’ha detto. Ha fatto piatti da menù e piccoli esperimenti, ovviamente non casuali ma nemmeno serializzati da un passato che non avevano. Andava bene così, era quel che ci eravamo detti, è venuto a chiedermi, a parlare, a confrontarsi con me che tra l’altro, come dire, nel mondo della ristorazione non rappresento altro che un qualunque cliente.

Questo modo di intendere la ristorazione e la professione mi è piaciuto moltissimo.

le rape

Complicato usare il conto per raccontare quanto si spenda, perché sono andato sostanzialmente fuori menù per quasi tutta la serata. Posso dire che il rapporto qualità prezzo è, volendo sintetizzare, abbastanza commovente.

l'anguilla coi friggitelli

Mi è chiaro, amici ascoltatori extrairpini: non passerete per Avellino esattamente ogni mercoledì alle 20, ok. Io però per una cena così farei pure discrete deviazioni lungo un viaggio, ecco.

Ah, giusto: li trovate qui

Rossovino da Maurizio: pesce a Monteverde

Chi a Roma abita a Monteverde (avrete iniziato a sospettare che gravitiamo in questa zona!) ha tanto verde a disposizione e tanto cielo pure, ma anche due problemini: l’assenza di cinema e la scarsità di ristoranti in cui poter mangiare pesce bene e a prezzi sensati.

La prima questione tuttora mi dispera, mentre alla seconda – daje e daje, tenta che ti ritenta – abbiamo trovato una insperata e graditissima soluzione.

Rossovino da Maurizio è in via Jenner, strada di negozi e passeggio; non c’è qui chi non lo conosca. La sottoscritta compresa.

Ma si sa, spesso quello che cerchiamo ce l’abbiamo sotto il naso e non lo vediamo. Nel caso specifico (cosa non ti fa la mente umana!) credo che sia proprio il fatto di averlo sempre visto lì, granitico, come un albero secolare o una specie protetta, a non avermelo mai fatto prendere in considerazione.

Poi però, quando lo abbiamo provato, ce ne siamo innamorati.

Se si esce dalla logica per cui val la pena mangiare solo in posti ricercati o rinomati o di moda o unici nel loro genere, si capisce come l’appellativo di ristorante di quartiere non sia riduttivo; piuttosto, è un titolo con il quale il quartiere, appunto, “elegge” quel ristorante a proprio rappresentante e lo fa con una selezione attenta – magari inconsapevole – che porta infine quel posto a essere quello in cui senza nemmeno doversi accordare si va per il “pranzo della domenica” o per il compleanno del nonno, e dove trovi, variamente assortiti, il signore da solo, i turisti del b&b accanto e le due amiche ottantenni.

Ecco, Rossovino da Maurizio è meritatamente ristorante di quartiere, nel senso bello che ho finalmente compreso.

La scelta è varia: mari e monti, insomma. E pizza, anche! Nelle numerose volte in cui, dopo esserci decisi a entrare, siamo stati loro ospiti, ci siamo tenuti sui mari e di quelli parliamo. Grandissima scelta di pescato del giorno, a prezzi fortemente al di sotto di quello di un trilogy di Bulgari, su cui invece si attestano gli altri ristoranti che abbiamo sperimentato in zona e non solo.

tartare di tonno

Grandissima scelta, dicevo: orata, spigola e san pietro per i tradizionalisti; diverse altre opzioni, ogni volta differenti a seconda della disponibilità del giorno, per i curiosi: ad esempio, una delle ultime volte, su proposta di Alessio, il nostro “cameriere di fiducia”, abbiamo preso un pagro, cucinato in cartoccio con dei meravigliosi funghi porcini arrivati il giorno stesso. Una delizia.

Lui sapeva che quel giorno il pagro fatto in quel modo era quel che ci avrebbe reso felici. E naturalmente non ha sbagliato.

porcini

Ci vede arrivare da lontano, Alessio, come avesse dei sensori, e ogni volta ci porta dove vogliamo. Due giorni fa, al momento della scelta della portata principale, gli spiaceva che – a causa dei miei mille problemi alimentari – dovessi rinunciare a una preparazione che non avevo ancora assaggiato e bissare quella di una delle altre volte (perché lui RICORDA cosa hai preso le altre volte) e senza che glielo chiedessi si è informato presso lo chef se fosse possibile una variante, con esito positivo. E io commossa.

Le preparazioni sono classiche, ma per farle bene bisogna essere bravi bravi, poche storie, e avere ottima materia prima.

Per i vini, non ne troverete di “non convenzionali”, tuttavia disporrete di una inusualmente ricca scelta di buone – alcune ottime – bottiglie da 375ml, graditissima alternativa al quartino quando si ha voglia di bere poco e insieme di provare qualche etichetta. Noi ci siamo affezionati al Bric Amel, ma conto che sapremo provare altro.

Il titolare passa tra i tavoli, disinvoltamente verificando che sia tutto sotto controllo, e scambia chiacchiere e battute con i clienti che vede ben disposti, e di noi ha capito subito che di parlare, confrontarci e anche scherzare abbiamo una gran voglia. È esperto, come ogni artigiano che conosce il proprio mestiere, ed è l’amore per il mestiere a guidarlo.

delizia al limone zuppa inglese crostata

Il pasticciere, a riconferma della dimensione artigianal-familiare del posto, è suo fratello e forgia una crostata con (tanta!) marmellata di kumquat che è da tornarci apposta. Anche la marmellata è locale e, ve lo assicuro da maniaca delle marmellate, eccezionale.

In un’occasione, nell’ordine: ne ho mangiato una porzione, me ne sono fatta incartare un’altra per la colazione del giorno dopo e ho chiesto se qualche volta posso ordinarla “a portar via”: ora ditemi se non crea dipendenza!

Il Pier, che pure non è un appassionato della voce “dessert”, è andato in visibilio con ogni dolce provato, e in particolare ha ritenuto la loro zuppa inglese la migliore mai assaggiata. Addirittura paragonabile, nella sua perfezione e nella sua eleganza, ai dolci di una rinomata pasticceria di zona, che tutta Roma, e non solo, conosce.

Per chiudere, amici, Rossovino da Maurizio è un posto dove è bello stare e da cui dispiace andar via: è entrato a pieno titolo nei miei e nei nostri posti del cuore, e non vediamo l’ora di tornarci con voi.

Elio e le storie tese – Italyan, Rum Casusu Çikti

Trent’anni. Quelle cose dette così, “trent’anni”, che ti fanno dire cose di una banalità estrema e che quindi non dirò. Trent’anni che è uscito Italyan, Rum Casusu Çikti. Il lasso epocale di tempo che da piccolo misuravo per separare la musica che amavo da Nilla Pizzi mi separa adesso da questa meraviglia che per me è ancora del presente.

Ma dei bias parleremo magari un’altra volta, come pure dei licenziosi avvii di periodo col “ma”.

Conoscevo già Elio e le storie tese, avevo il primo album e li avevo visti live in un teatro tenda di Roma che nemmeno esiste più, ma che per i romani era quello di Renato Zero e per gli italiani quello di Lucio Dalla in Borotalco di Carlo Verdone (“STAI, LUCIO, STAI!” non uscirà mai più dal repertorio comico di chi voglia fare citazioni). I ragazzi erano ovviamente più acerbi, ma che fossero geniali era già evidente, e il seguito di quell’LP di debutto, che era un po’ una raccolta delle prime canzoni fatte negli anni, era atteso da tanti di noi con la curiosità di chi vuol capire se la promessa verrà mantenuta.

L’acquisto in effetti fu immediato all’uscita.

Elio e le storie tese copertina album Italyan, Rum Casusu Çikti

Rocky (il gigantesco Ferruccio Amendola) introduce il coro delle voci bulgare che introduce Servi della gleba, che parte a bomba come fossimo al live di una tribute band dei Toto. Un inizio clamoroso, con dentro il basso a SLAPPARE, coretti scemi, timbri curati e ritornello fichissimo.

Il tutto mi fece subito pensare alla partenza di un mezzo capolavoro.

Che poi non era mezzo.

L’avanspettacolo di Arriva Elio la butta in caciara con l’autopresentazione da teatrino del gruppo, ma si capisce già che, più che alla nuova Alfieri, i nostri vogliono giocare a fare una Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band che la prende a ridere. Infatti arriva Uomini col borsello, e ad accompagnare ci sono nientemeno che i Chieftains, in un crescendo che passa poi per i Pooh, citati dal diretto interessato Riccardo Fogli. I suoni, gli effetti e gli arrangiamenti marcano nel frattempo un notevole salto in avanti rispetto al debutto.

Il vitello dai piedi di balsa è una favola che parte in filastrocca e poi, nel suo drammatizzarsi, comincia a rifinire una delle principali caratteristiche del complessino, in questo suo giocare di contrasti mettendo assieme una forma di sacro e profano che non si accontenta della religione, ma accorpa di tutto col gusto di volerlo fare in modo efficace, che faccia ridere, che funzioni. Ecco che allora, per esempio, tra varie finte zampe arriva la chitarra che cita i Pink Floyd, arriva Enrico Ruggeri che di fatto fa la caricatura di sé, arriva “la pena aggiuntiva” per il vitello mentitore che aprirà un rito ininterrotto, trent’anni di concerti in cui decine di brutte canzoni hanno occupato quei secondi, in uno dei molti momenti che ci ricordano quanto sia stato bello aver avuto in regalo dalla musica Frank Zappa.

Cartoni animati giapponesi diventa, in questa sequenza micidiale, un brano minore suo malgrado, perché quasi qualunque gruppo andrebbe fiero di averlo in repertorio e qui il suo problema è solo l’esser circondato da irresistibili perle, tant’è vero che a seguire, dopo il siparietto di Cinquecento, arriva Supergiovane, capolavoro multistrato tempestato di brillantini che riflette eternità da qualunque lato lo si guardi: testo scoppiettante come la Vespa guidata dal supereroe, una storia epica costruita su minchiate, cambi di atmosfera da suite prog cazzona, un coro gospel per dei botta e risposta velocissimi sul nulla, l’omaggio a Paolo Conte, arrangiamenti fichissimi. Elio e le storie tese fanno sul serio, l’ascolto arriva a questo brano certificando che nella musica italiana è accaduto qualcosa di nuovo che non finirà presto.

Ora: andrebbero snocciolati altri grandi brani che seguono.

Per esempio il grandissimo Pipppero col coro delle voci bulgare (il quale, peraltro, da quel momento avrà in Italia un grande meritato successo a sé offrendo un’esperienza dal vivo eccezionale, come può testimoniare ad esempio lo scrivente). Oppure La vendetta del fantasma formaggino, con Diego Abatantuono che nell’album passa di ruolo da fruttarolo e Dio della barzelletta, tra citazioni d’infanzia e Jesus Christ Superstar.

Siccome però in trent’anni sono uscite tonnellate di recensioni non è che dobbiamo star qui a staccare brani dall’album come piselli dal baccello, quindi chiudo qui questa parte e vado anche un po’ a concludere, così non mi perdete concentrazione: da questo grandioso album in poi è di fatto stata possibile avere a che fare col più grande gruppo italiano dei tre decenni successivi, ma già a volerlo guardare da solo questo disco è tra gli imperdibili della musica italiana.

Pizzeria La Gianicolense, o le sorprese di quartiere

Vicino a noi scriventi, lungo le strade che ci portano a casa o che ci accompagnano altrove da casa, tanta vita scorre proprio come tipica vita da quartiere di tanti quartieri storici italiani: chiunque incontra o conosce realtà più o meno piccole, attività più o meno note (spesso meno) che hanno fama al più nella zona, e che per mille diversi motivi non rientrano nel giro dei famosi, nel canale “giusto” delle mode, nel flusso di chiacchiere delle persone. Magari semplicemente perché non fanno rumore, anche se nascondono persone che amano lavorare bene.

antipasto di salumi e formaggi

Qui nel quartiere romano di Monteverde -per esempio, eh?- succede, sempre secondo noi, in questo posto che è una sorpresa fatta di tante sorprese a frattale, quelle cose che cogli solo avvicinandoti, accorgendoti che un livello ne cela un altro e che da lì, ancora, … ok, basta, ne parlo, VA BENE.

Da fuori c’è sostanzialmente l’immagine di una pizzeria o forse qualcosina in più, con legni scuri e mattoni, l’insegna appunto da quartiere che difficilmente sarà fuori moda o di moda. Bisogna accostarsi un po’ e cominciare con un’occhiata alla lavagna del menù, dove le prime certezze superficiali iniziano a cadere: c’è qualche burrata, la bufala ha accanto il nome dell’azienda che la produce, ci sono le tartare, una è con la giardiniera di Morgan. Indizi così.

pizza romana con stracchin zucchine e prosciutto arrosto

Beh, ma io credevo che… ma vedo che invece, forse… ma allora proviamo!

Locale ampio con una sala a L che abbraccia la zona contenente frigoriferi, cassa, forno per la pizza, cucina, sassofono. Fuori c’è posto per un po’ di tavoli e in quel punto la circonvallazione non soffre di un traffico eccessivo, per cui ci si sta bene.

rigatoni alla carbonara

Il personale è competente, cordiale, simpatico ma con la capacità di capire se il cliente non corrisponda in altrettanta simpatia (se n’è visto qualcuno) e agire di conseguenza assorbendo il disvalore professionalmente. All’arrivo dei menù ecco una sorpresa che, da fuori, non ci si aspetta proprio: la carta di vini e birre, direi più o meno per intero nel perimetro che chiameremo dei prodotti non convenzionali (altrimenti bisogna dire NATURALI e il blog esplode in un tripudio di miccette, per cui tale parola verrà evitata). Urca, ma siamo in un posticino che… sì, mi sa di sì!

fritto vegetale

I titolari, compagni anche di vita, viaggiano tra gli ambienti, coordinano, chiacchierano coi clienti. Lo staff è una bellezza: persone sorridenti che sanno sempre di cosa parlano quando c’è da scambiare due parole sui piatti o sulle bottiglie. Insomma, d’animo si sta proprio bene. La proposta è piuttosto ad ampio spettro e c’è modo per quasi tutti di trovare qualcosa di gradito. Niente nomi di piatti qui, anche perché le variazioni sono frequenti, ma c’è amore per la materia prima di qualità e questo si sente al di là dei “brand” trattati, delle aziende agricole cercate, dei fornitori selezionati; il mercato cambia e cambierà, ma l’approccio è chiaro e lo si apprezza molto anche da clienti perché, a parte la bontà dei piatti quando arrivano, c’è anche modo di parlare e confrontarsi su un ingrediente, un vino, una cottura.

tagliata al tartufo

È divertente anche informarsi su qualche fuori menù, qualcosa arrivato da poco, magari un piatto di “test” per un prodotto nuovo su cui scambiare un parere, o una bottiglia “strana” che magari un cliente dai gusti tranquilli rimanderebbe indietro e che invece diventa divertente assaggiare ascoltando anche le sensazioni di Armando (il titolare di sesso evidentemente maschile) che ne ha assaggiata una il giorno prima.

poke con riso nero pollo e insalata

La sera c’è anche la pizza, che per dirimere sul tema FONDAMENTALE e DIVISIVO classifichiamo tra le romane ma NON tra le CROSTE. E’ cotta, non carbonizzata. E’ sottile, non carasau. Quella provata, un fuori menù del giorno, era con uno stracchino per nulla banale e un prosciutto arrosto. Buonissima.

vino naturale indigeno ancarani trebbiano

Si spende il giustissimo, si esce proprio contenti per come il tempo è passato, per il cibo e per la sensazione abbastanza netta di aver conosciuto persone di qualità pari a quella che cercano di mettere in tavola.

Li trovate qui. Datece retta e diteglielo pure!

Roma integrale – Pizza al centro

ATTENZIONE!!! Puristi della cucina e della ristorazione, questo post per voi è IL DEMONIO… fuggite!

Alcune premesse, necessarie.

La prima: soprattutto a me, che ho vari problemi di tipo alimentare e che al ristorante faccio lo slalom tra una riga e l’altra del menu, con un occhio che al volo individua l’unico antipasto vale-compatibile mentre l’altro già si lancia sui secondi (i primi devo evitarli) e intercetta quello che potrebbe andare una volta chiarito un dubbio col cameriere e contemporaneamente ipotizza un piano B, e poi sommergo di domande il cameriere per, infine, chiedere esasperata delle varianti per uscirne anche stavolta, dicevo, soprattutto a me che ho vari problemi ecc ecc, fa piacere segnalare non solo posti poco conosciuti e che ci hanno colpito particolarmente, ma anche quelli in cui trovare un menu che possa soddisfare esigenze specifiche, anche se non necessariamente rappresentano l’eccellenza.

La seconda: non è vero che il centro di Roma è quel posto che si caratterizza per la sola presenza di trappole per turisti. D’accordo, bisogna scegliere con mooooolta cura e anche essere disposti al compromesso, ve lo concedo, ma se si allentano i paletti e si riducono le pretese ci si può persino sorprendere.

Ci è capitato così di sperimentare, spinti dall’orario e dalla fame, un posto (Origano, Largo dei Chiavari 84) in grado di far contenti i turisti e riservare un’inattesa scoperta per chi come me adora la pizza napoletana ma non può mai mangiarla, perché deve evitare le farine bianche: la pizza napoletana integrale.

Il menù esposto ai passanti con tanto di foto delle pietanze scoraggia, e altrettanto la posizione iperturistica, tra Sant’Andrea della Valle e Campo de’ Fiori, ma questa occasione non potevo perderla. Alla domanda se la pizza fosse del tutto integrale (ti spacciano per integrale qualsiasi prodotto sia integrale al 5%), la ragazza interpellata ha subito precisato che “no, c’è una parte di farina bianca”, per poi informarsi e riferirci che la percentuale di farina bianca era del 25%. Amici, mai vista una cosa del genere in nessuna pizzeria romana.

Incredula, mi sono seduta all’istante, e il mio egli è stato contento di cedere, sapendo della mia inenarrabile felicità.

Consigliabile evitare il prosciutto cotto e scansare un po’ di “mozzarella”, che – come spesso capita a Roma – anche qui è quella entità aliena di solito definita “formaggio per pizza”, ma l’impasto è ottimo e i condimenti generosi.

calzone integrale dentro, margherita fuori, Origano, Roma

pizza integrale ortolana, Origano, Roma

Il servizio, affidato a giovani ragazzi (intendansi comprendenti le ragazze, please), è cordiale, sorridente e attento. E’ un posto in cui – se si ha il giusto spirito – si sta bene, sentendosi simpaticamente turisti nella propria città. A volte anche questo diverte e alleggerisce; la frequentazione è la più varia, ma viva la diversità, i colori, gli accenti, le bizzarrie!

Insomma, anche basta con questo stare sempre imbalsamati con la faccia da intenditori intransigenti frequentando solo i posti blasonati – pena l’indignazione, il disgusto, l’isolamento sociale.

Proviamo qualche volta a prenderci meno sul serio, se no si diventa pesanti e – molto peggio! – si rischia di non trovare mai e poi mai una cavolo di pizza napoletana integrale.

Sinosteria

(ultima visita: Febbraio 2022)

A Roma ristorante cinese significa perlopiù quel che significa nel resto d’Italia -solita lista di piatti al solito basso prezzo fatti nel solito modo-, sicché aumentano, col crescere della qualità che si cerca volendo mangiar fuori, le chiacchierate tra appassionati su dove mangiare cinese MA buono, che detta così suona un po’ cattiva ma che tra romani si capisce, è quel tono un po’ sbruffone che… non andrei oltre circa la romanità e concluderei con “ce lo meritiamo, Alberto Sordi”.

involtini primavera

maiale con verdure piccante

Il bello arriva quando qualche nome nella classifica dei “più qualcosa” esce fuori (il dibattito che ne segue è, come sempre, articolato a piacere), e tra questi, ormai da un po’ di tempo, c’è Sinosteria, posto di qualità condotto dalla famiglia di Jun Ge e che fino a qualche anno fa si chiamava Asian Inn, a testimoniare già da questo cambio una visione di cucina e di “stare dove si è”, con la volontà e l’energia per dare direzioni nuove.

vino siciliano catarratto

Anche stavolta arriviamo a scriverne tutt’altro che per primi, quindi il grosso dei dettagli classici lo trovate già ovunque. Passiamo perciò oltre; è un posto in cui si sta bene perché il livello di confidenza, formalità, conversazione viene sapientemente dosato tavolo per tavolo da Jun che, si vede bene, prende prima le misure del cliente e poi, se si è entrati con curiosità, condivide quel che sa ed è, in proposte, suggerimenti e racconti di sé, concretizzando senza fatiche il senso della parola osteria.

riso bianco

L’amore per l’Abruzzo traspare in diversi momenti da menù, bottiglie in giro per il locale e parole, competenze e storie. C’è stata e direi che ci sarà collaborazione col ristorante Mammaròssa di Avezzano (AQ), altro posto speciale che muove appassionati da diverse città; è divertente e gustoso godersi questi territori condivisi in piatti di tradizione di diverse regioni cinesi che incontrano zafferano di Navelli, aglio rosso di Sulmona, mugnoli di Pettorano sul Gizio e altro.

crema di riso al latte di cocco con pollo zafferano di navelli e zucchine

Questo segnatevelo:

Crema di riso al latte di cocco con pollo, zafferano di Navelli e zucchine

E’ un divertimento ovviamente di gusto ma anche per la possibilità che offre di scambiare passioni ed entusiasmi, perché Jun si è innamorato dell’Abruzzo e te lo dice in mille modi, ricordandoti che fusion non vuol dire per forza che devi sovrapporre un mango e un pezzo di tonno, ma che culture e sorrisi possono incrociarsi per scoprire sorprese.

riso bianco con carne e uova

Abbinare le molte bontà del menù con uno o più vini è cosa che, nelle non molte volte in cui siamo riusciti ad andare, ho affidato al nostro eroe, con risultati sempre interessanti. E’ l’ulteriore divertimento, perché tra carta dei vini e proposte del giorno al calice siamo ad alti livelli non solo per quantità e qualità della proposta, ma anche per la possibilità di azzardare, sconfinare, bere a prescindere dalle mode, dalle diatribe naturale/convenzionale, da quel tipo di esperti che si prende troppo sul serio e non sa giocare.

vino primitivo puglia

Anche qui non vi diciamo nomi, cantine, uve: qualche foto c’è; per il resto troverete tanto, sarà tutto di valore e potrete rincorrere le accoppiate giuste chiacchierandone. Non succede spesso.

orecchie di maiale

Qui è dove vi chiarisco perché “ristorante cinese” sia una definizione restrittiva per Sinosteria:

Fuori menù, quella sera, c’era la trippa.
L’ho chiesta.
Sono tornati al tavolo. Era finita.
C’erano le orecchie di maiale.

Prese.

Insomma: atmosfera rilassata, genitori tra sala e cucina, figlio in giro per il locale a fondere culture, gente che mangia sorridendo, bocca pulita alla fine, con la voglia di tornare presto e di consigliare Sinosteria al successivo dibattito social o live di cui sopra, perché senti che sei stato proprio bene, che hai assaggiato o ascoltato qualcosa che non conoscevi. Mangiare fuori, per davvero.

vino rosso toscano miscelone

Prezzi giustissimi, zona magari non proprio top per passeggiata pre e post o per parcheggiare, ma ben servita dai mezzi pubblici. NON FATE QUELLA FACCIA; mi ha detto mio cugggino che una volta è andato al ristorante coi mezzi pubblici e non è morto.

Dàtece retta, sicuramente, ma qui tanto ve lo dice tutta Roma!

Scoprire San Francesco a Ripa

Il bello è più bello se non te lo aspetti.

Non abito lontano da lì e – voglio dire – girare per Roma giriamo, eppure non l’avevo mai notata. A mia discolpa, Vostro Onore, preciso che la chiesa in questione è un po’ defilata; d’altra parte chi conosce i francescani sa che non amano dare troppo nell’occhio, operano con umiltà, senza ostentare.

Tant’è, è stato inoltrandoci nella zona ad est di Viale Trastevere, più o meno all’altezza del Ministero dell’Istruzione, che ho scoperto l’esistenza della chiesa di San Francesco a Ripa.

Anche una volta che ce l’hai davanti pensi ad una chiesa modesta che, con tutte le ricchezze di cui le chiese di Roma traboccano, è tra quelle che possono essere saltate. La facciata, di un barocco inaspettatamente lineare ed essenziale, conferma questa prima impressione.

Eppure Pier sapeva – non chiedetemi perché – che mi sarebbe piaciuta.

L’abbiamo visitata ben prima che nascesse il nostro amato blog, sicché vi parlo più di sensazioni che di ricordi precisi e ben fissati nella mente. Tuttavia, siccome noi qui vogliamo condividere con voi il bello e il buono che sperimentiamo, perché magari vi venga voglia di sperimentarlo a vostra volta, questo posto non posso non citarlo.

Subito ad accoglierci, nella prima cappella a sinistra, una non molto nota (credo) “Nascita della Vergine” di Simon Vouet, caravaggista che di Caravaggio conserva qui la forza dei contrasti, la semplicità delle figure e la quotidianità della scena (il rimando al Maestro è anche nella presenza della figura di spalle, che c’ha da fa’, mica può preoccuparsi delle buone maniere).

Tuttavia Vouet ha il coraggio di non scimmiottare Caravaggio e opta per un ingentilimento dei movimenti, degli sguardi e della composizione, la cui circolarità, data dalla disposizione delle figure (tutte protettivamente curve verso Sant’Anna) e dalla direzione dei gesti, dà una poco caravaggesca “morbidezza” all’insieme.

Proseguendo lungo la navata sinistra, nascosto in una stretta e nascosta cappella, del tutto inatteso incontrate il gioiello della chiesa: l’“Estasi della Beata Ludovica Albertoni” del Bernini.

Evidente il rimando all’Estasi di Santa Teresa D’Avila, sempre di Bernini, ma di un Bernini di più di 25 anni più giovane e collocata nella ben più centrale chiesa di Santa Maria della Vittoria.

Lo scenario in cui è “esposta” Santa Teresa è molto più ampio e sontuoso, nonché teatrale, coi committenti scolpiti in logge laterali a commentare si direbbe con gusto e fare quasi voyeuristico.

La Beata Ludovica Albertoni è invece posta in uno spazio molto più “angusto” e privato, decisamente distante dall’osservatore; tuttavia, con un gioco prospettico delle pareti, che dall’ingresso della cappella fino alla scultura vanno a stringersi, Bernini fa sì che lo sguardo sia catalizzato dalla scultura come se fosse a due passi da noi.

Le gambe piegate, o meglio raccolte in modo scomposto e attraversate dal meraviglioso drappeggio della veste, la posizione delle mani, lo sguardo, gli occhi semichiusi, la bocca leggermente aperta difficilmente ci farebbero pensare al momento del trapasso, se non ci fossero i cherubini sospesi su di lei ad attenderla.

Con gli occhi e il cuore già grati di tanta bellezza, per puro caso abbiamo visto un cancelletto – purtroppo chiuso – che immetteva in una stanza spoglia, caratterizzata da pareti con nicchie vuote, geometrie austere a creare uno spazio metafisico, in cui è il vuoto a parlare. Non ci ha stupito – e insieme ci ha meravigliato enormemente – che si trattasse della cappella che custodisce le spoglie di Giorgio De Chirico.

Insomma, perché proprio lì? E’ interessante leggere su siti molto più informati di questo il motivo della loro collocazione in una defilata chiesa trasteverina dedicata a San Francesco.

Che visita stupefacente, pazzesca, abbagliante!

Attenti, amici, vi vedo che a Trastevere ci passate (e pure spesso!) per una carbonara: mi raccomando, San Francesco a Ripa vi aspetta!

Bill Meyers – Images

Dovesse venir fuori una rubrica sugli album da isola deserta, quindi fino al tuo arrivo inutilmente dotata di elettricità, lo scrivente sarebbe in bilico tra questo e altri due o tre capolavori e a quel punto pazienza, porterebbe un maglione in meno e alé, ci stanno tutti.

Prologo

Chi cacchio sia Bill Meyers è una domanda che può sopraggiungere con una probabilità abbastanza elevata. Succede però che poi uno ascolta ad esempio l’intro di archi di Papa don’t preach della più famosa Ciccone della storia musicale e… sì, roba sua, come per parecchie altre cose belline tra pop, colonne sonore e produzioni varie.

La copertina è questa. La specificazione è dovuta, perché i vinile-addicted, i cercatori di CD rari e via elencando troveranno questo album, quando lo troveranno, in almeno quattro copertine diverse, di cui una uguale qìa questa ma con font più chiaro e più brutto

Succede spesso, però, che quando sei un grande musicista, arrangiatore, conoscitore profondo delle meccaniche su cui si fonda un brano, vuoi divertirti con una cosa tutta tua. Bill Meyers qui (1986) ha scelto di farlo alla grandissima, alla enorme, con un progetto con dentro tanti elementi che già presi singolarmente renderebbero difficile un progetto: alla base un ensemble che all’epoca poteva rientrare nel perimetro della fusion, musicisti di altissimo livello (cercate l’elenco dettagliato in rete, tanta tanta roba), una sezione archi, poi ottoni, legni, synth, pianoforte, l’incrocio di generi musicali distanti tra loro per carattere, timbri e secoli, tutto registrato live in studio su due piste.

Il risultato di tutta questa mostruosa ingegneria è mezz’ora di miracolo musicale carica di creatività, caleidoscopica, con uno spettro sonoro gigantesco e pochissimi difetti.

La tracklist

Si parte con AM, proprio una sveglia che suona già nel traffico con l’arrivo dei clacson, un inizio da cittadini e un’impostazione molto USA, che tutto sommato abiterà l’album un po’ ovunque. Orchestrazione poderosa, drumming nettissimo e frontale, assolo di piano che ti si porta appresso ovunque tu sia, potenza e pulizia da vendere.

PM. Si torna a casa, si rallenta in un jazz intimo con piano elettrico riverberato, chorus a manetta sulla chitarra e un formidabile Ernie Watts al sax. Fusion di livello molto alto, elegante e sospesa, che cede solo negli ultimi tre accordi al rilassamento completo.

Voyager comincia con un organo stellare in un tema efficacissimo che si fa raggiungere da diversi strumenti a fiato e, con qualche americanata di troppo, entra in un passaggio di synth che inventa un crescendo di tensione armonica con un passaggio fichissimo, che dall’improvviso pianoforte apre su un ritmo tosto e dritto dritto verso il suo stesso raddoppio, col basso che va di slap lungo un solo di chitarra teso e diagonale, fino ad arrivare su variazioni orchestrali interrotte da quattro interventi micidiali di batteria dell’allora giovanissimo Vinnie Colaiuta che spalancano a piena orchestra il ritorno ai temi affrontati nel brano. Spettacolare.

Heartland parte di intro sintetica per poi introdurre al piano un tema che viene ripreso in diverse ambientazioni di arrangiamento successive ed entra in un quattro quarti diretto diretto, che si interrompe con un ponte d’archi pronti a diventare protagonisti nel ritorno ritmico, su cui un italiano difficilmente non dirà “rondò veneziano!”. Alcuni passaggi da lì al finale sembrano proprio testimoniare che Meyers voleva giocare con tutti i suoni a disposizione e farli interagire nel trionfo finale.

Time warp si propone con due parti distinte in cui si viaggia per l’appunto nel tempo, presentando uno specifico tema di partenza che viene usato prima in veste jazz con orchestrazione classicheggiante e sax soprano molto raffinato in un solo bellissimo, e poi con l’elettronica su cui, tra piani elettrici e basso sintetizzato, viene costruita una seconda sezione nervosa e serrata.

Pastorale chiude col protagonismo del pianoforte che introduce una melodia di grande cantabilità e diventa ariosa volata d’orchestra, coi synth a colorare alcuni passaggi, arrangiamenti d’archi a suddividere i contesti e di nuovo il pianoforte splendido attore principale che, salendo di densità, porta sulla ripresa con la chitarra elettrica e il ritorno al tema con l’insieme musicale al completo, partecipe di un finale degno del capolavoro assoluto che questo album è, chiuso da tre accordi di piano in solitaria.

Vado a concludere, via…

Lo ascolto frequentemente dalla sua uscita, cosa di cui all’epoca venni a conoscenza (come di molte altre uscite) grazie a Richard Benson ed al suo Ottava Nota, programma fondamentale di una piccola emittente romana e di cui molti italiani conoscono solo la versione cinematografica, Jukebox all’idrogeno, con cui Carlo Verdone ha voluto rendere omaggio ad una grande trasmissione nel film Maledetto il giorno che t’ho incontrato.

Credo sia un album che non mi stancherà mai. Credo anche che, a parte qualche suono un po’ datato che magari tornerà di moda, sia un lavoro con scelte timbriche non troppo legate al suo tempo.

Registrato in modo splendido, con grandissima pulizia e sapienza e col mastering curato da Bernie Grundman. Personalmente l’ho usato spesso come riferimento per testare componenti hi-fi.

Dateme indubbiamente retta. È bellissimo.

Tram Tram, il bello delle osterie (e delle persone)

(ultima visita: gennaio 2022)

A Roma San Lorenzo è un quartiere che, per un motivo o l’altro, conoscono direi tutti. Anche quelli che romani non sono e vengono qui per studiare. C’è, quindi, offerta varia e talvolta eventuale per i gggiovani, ma parecchi sanno che c’è pure, da tempo, un riferimento costante che mette assieme un desiderio diventato fortunatamente un po’ trendy in questa città: mangiare e bere con qualità e “de còre”.

Lungo la via su cui sferragliano mezzi pubblici, dei quali a questo punto non dovrebbe sfuggirvi il nome, questo posto fa venir voglia di entrare già da fuori perché è come è, diretto, frontale, lontano dalla necessità di esser di moda o dal rischio di esserne fuori, e se non lo conosci ti fa comunque sperare che, dentro, le cose vadano come sembra dall’esterno.

Ed è così.

Mamma e figlie sono impegnate, da quando hanno rilevato il locale (l’età a tre signore non si chiede, ma il millennio era il precedente, in tutta onestà), a proporre una cucina e un’atmosfera che sono, in armonia, un discorso chiaro e sorridente verso i clienti, con un menu che viene anche raccontato per quel che c’è o non c’è nel giorno, con la professionalità di chi sa gestire i clienti ma anche con la schiettezza di chi evita preamboli e formalismi. Le due cose possono piacere magari a persone o in contesti diversi, ma non è facile che stiano bene assieme. Qui invece succede.

Come sempre, i dettagli e i tecnicismi ve li stanno dicendo già tanti siti internet superfighi ed enogastrocompetenti, per cui qui procediamo al solito pensando a passare due ore in cui si sta bene, oltre a mangiar bene. Allora alici, purè di fave con la cicoria, baccalà, gnocchi buonissimi (il concetto di gnocchi buonissimi trova, a parere dello scrivente, concretizzazioni che definiremo rare), le puntarelle, l’abbacchio, le polpette, il tortino di alici e indivia. Questi tra i ricordi accumulati nel tempo, durante le non molte visite (come ognun sa, Roma è diverse città; raggiungerne una da una delle altre implica attraversarne altre ancora. Ne segue che certi spostamenti richiedono spesso fasce orarie libere dalle dimensioni importanti).

La mano in cucina è molto chiara, sicura e tanto tanto coerente col resto, e questa cosa è bellissima. Per certi versi è uno dei motivi per cui, sempre per opinione dello scrivente, un pranzo o una cena passano da buoni a belli. Ad accompagnare i piatti ci sono, come dicevo, l’atmosfera e le parole di sala, che non fanno folclore ma sono proprio il mestiere di lavorare bene e costruire bei rapporti coi clienti; non mi stancherò mai di ripetere quanto questa bellezza faccia bene quando si mangia fuori, ma di leggerlo invece magari vi stancate voi, quindi smetto.

Si beve bene, anche. Molto bene, anche, perché i vini sono cercati, prima che ricercati, e nell’ampiezza della proposta hanno pure loro una coerenza col locale: carattere, personalità. Non stanno lì dentro perché qualcosa si deve pur bere, ma perché hanno meritato di entrarci, quelli più semplici e quelli che costano. Scelti, tutti, con cura. Trovate anche vari naturali, ma li trovate non perché sono naturali, ma perché sono buoni.

Si spende quel che subito dopo si troverà giusto aver speso; comunque in linea con la ristorazione romana di questo tipo, ma con qualità meno comune.

E’ un posto in cui viene voglia di tornare già mentre vai via.

Dàtece retta!